martedì 2 giugno 2020
Va avanti lentamente il processo per la morte del bracciante del Mali, colpito a fucilate mentre raccoglieva lamiere per la sua baracca nel ghetto di San Ferdinando. E nel territorio nulla è cambiato
Un momento del sit-in di protesta a Napoli a seguito dell'omicidio di Soumaila Sacko

Un momento del sit-in di protesta a Napoli a seguito dell'omicidio di Soumaila Sacko - Archivio Ansa

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Dopo due anni non c'è ancora giustizia per Soumaila Sacko, il bracciante maliano ventinovenne ucciso il 2 giugno 2018 a San Calogero nel Vibonese. Il processo va avanti con tempi lentissimi. Giudizio immediato (quasi un'ironia), quindi saltando l'udienza preliminare, per l'evidenza delle prove raccolte e perchè l'accusato era in carcere. Si è cominciato il 20 dicembre 2018. Alla sbarra Antonio Pontoriero che sparò alcuni colpi di fucile contro Soumaila e altri due immigrati che stavano raccogliendo alcune lamiere dalla fornace in località "Tranquilla", impianto abbandonato e sotto sequestro da più di dieci anni dopo la scoperta di 135mila tonnellate di rifiuti pericolosi, ceneri e fanghi industriali. Quelle lamiere servivano ai giovani africani per rinforzare le baracche del ghetto di San Ferdinando, per renderle più resistenti alle intemperie e al fuoco che più volte aveva distrutto l'insediamento. Per Pontoriero quel luogo era "cosa sua", ma non era vero, e lo rivendicò sparando e uccidendo. Individuato e arrestato dopo cinque giorni, dopo due anni è ancora in carcere perché è ritenuto dai magistrati un soggetto pericoloso, capace di ripetere gesti violenti. Ma, come detto, il processo va avanti a passi lentissimi. Subito rinviato al 19 febbraio 2019 ha subito nuovi e lunghi rinvii.

L'ultima udienza si è tenuta lo scorso 13 maggio, quando la Corte d'Assise di Catanzaro avrebbe dovuto ascoltare un superstite ed un altro testimone, ma non è stato possibile. Così il processo è stato rinviato al 24 giugno. La sentenza, ma è solo un'ipotesi, potrebbe arrivare a fine anno, proprio in coincidenza con la rivolta degli immigrati del gennaio 2010 che fece scoprire le condizioni di sfruttamento di migliaia di lavoratori di Rosarno e degli altri paesi della Piana di Gioia Tauro. Da allora poco o nulla è cambiato. Solo l'enorme baraccopoli di San Ferdinando dove viveva Soumaila, con altri 2mila braccianti, non c'è più. Abbattuta il 6 marzo 2019. Ma i resti delle baracche, anche le rosse lamiere della fornace, sono ancora tutti lì, enorme discarica sulla quale sta crescendo l'erba. Malgrado le promesse dell'allora ministro, Matteo Salvini, non sono arrivati i fondi per smaltirli. sono state trovate soluzioni abitative definitive e dignitose per i braccianti, tranne la provvisoria tendopoli che ospita 450 persone. Come scrivemmo un anno fa, in occasione del primo anniversario dell'omicidio, "Soumaila è morto per niente". Anche per i rifiuti interrati nella fornace il processo sta andando avanti a rilento, sempre a rischio prescrizione. Ma di bonifica non se ne parla. L'attenzione su questo disastro ambientale, rilanciata dalla morte del bracciante, è poi calata. Davvero una doppia vicenda dove la giustizia sembra non essere di casa.

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