martedì 3 luglio 2018
Oggi il caso al Csm. Processo per tre poliziotti. L'appello a Mattarella della figlia del giudice, Fiammetta
La strage di via D'Amelio (Foto archivio Ansa)

La strage di via D'Amelio (Foto archivio Ansa)

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Il Consiglio superiore della magistratura si occuperà di «uno dei più gravi depistaggi della storia giudiziaria italiana» con protagonisti uomini delle istituzioni, quello che dopo 26 anni impedisce che si conosca la verità sulla strage di via D’Amelio, in cui furono massacrati da un’autobomba il giudice Paolo Borsellino e cinque agenti di scorta.

Dopo le motivazioni della sentenza Borsellino quater – che hanno chiamato in causa alcuni degli investigatori dell’epoca che hanno gestito la collaborazione di Vincenzo Scarantino solo di recente rivelatosi totalmente inattendibile – e dopo l’appello al presidente della Repubblica della figlia del giudice ucciso, Fiammetta, perché si faccia chiarezza sui magistrati che hanno avallato la versione di quel falso pentito, Palazzo dei Marescialli invia una nota ufficiale di chiarimento. Spiega che «il Comitato di presidenza dispose l’apertura di una pratica, già lo scorso 28 settembre, trasmettendo alla I Commissione, la nota della dott.ssa Fiammetta Borsellino e la richiesta del Comitato al Presidente della Corte d’Appello di Caltanissetta di invio della sentenza Borsellino quater (all’epoca non ancora depositata)». Qualcosa dunque si muove finalmente per tentare di fare luce su un grande buco nero della storia italiana.
La Corte d’assise di Caltanissetta, presieduta da Antonio Balsamo, giudice a latere Janos Barlotti, 14 mesi fa concluse l’ultimo processo sulla strage di via d’Amelio e nelle 1.865 pagine di motivazioni non fa sconti. Punta il dito contro i servitori infedeli dello Stato che imbeccarono piccoli criminali, assurti a gole profonde di Cosa nostra, costruendo una falsa verità sugli autori dell’attentato al giudice Borsellino, avvenuto 57 giorni dopo quello contro Giovanni Falcone.

La sentenza, il 20 aprile del 2017, condannò all’ergastolo per strage Salvino Madonia e Vittorio Tutino, e a 10 anni per calunnia Francesco Andriotta e Calogero Pulci, finti collaboratori di giustizia usati per mettere su una ricostruzione a tavolino delle fasi esecutive della strage costata l’ergastolo a sette innocenti, per i quali la pena era stata poi annullata. Per Scarantino, il più discusso dei falsi pentiti, i giudici dichiararono la prescrizione concedendogli l’attenuante prevista per chi viene indotto a commettere il reato da altri. E ora le motivazione tentando di dare un identikit di questi “altri”, investigatori mossi da «un proposito criminoso», chi «esercitò in modo distorto i poteri». La Corte d’assise usa parole durissime verso chi condusse le indagini: il riferimento è al gruppo che indagava sulle stragi del 1992 guidato da Arnaldo la Barbera, funzionario di polizia diventato anche questore, morto nel 2002.

E proprio in questi giorni la Procura di Caltanissetta ha chiesto il rinvio a giudizio di tre poliziotti per il depistaggio: il funzionario Mario Bo, che è stato già indagato per gli stessi fatti e che ha poi ottenuto l’archiviazione, e per i poliziotti Michele Ribaudo e Fabrizio Mattei. Per tutti l’accusa è di calunnia in concorso, per aver costretto Scarantino a fare nomi e cognomi di persone innocenti.

I giudici hanno scritto che quello sulla strage di via d’Amelio è stato «uno dei più gravi depistaggi della storia giudiziaria italiana», «è lecito interrogarsi sulle finalità realmente perseguite dai soggetti, inseriti negli apparati dello Stato, che si resero protagonisti di tale disegno criminoso, con specifico riferimento ad alcuni elementi». I magistrati dedicano parte della motivazione all’agenda rossa del giudice Borsellino, il diario che il magistrato custodiva nella borsa, sparito dal luogo dell’attentato. La Barbera, secondo la Corte, «è stato altresì intensamente coinvolto nella sparizione dell’agenda rossa».

Resta «una enorme, vergognosa, zona grigia che il nostro Stato deve cancellare, definitivamente» ha scritto su Facebook il ministro per il Mezzogiorno, Barbara Lezzi. E per Fiammetta Borsellino «queste motivazioni non sono un punto d’arrivo, ma di partenza. Bisogna andare avanti processualmente per accertare le responsabilità di chi ha commesso i reati, ma anche dei magistrati che controllavano e coordinavano le indagini», «esistono lacune gravissime e inaudite, sicuramente funzionali a quello che è successo e che devono essere attestati dai competenti organi dello Stato, non solo le procure, ma anche il Csm».

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