Dare la vita per costruire la pace: la lezione dei martiri d'Algeria

La vita donata senza tornaconto diventa esempio di convivenza e costruzione di comunità: al Meeting la storia 19 beati uccisi negli anni Novanta dal Gruppo Islamico Armato. E della loro eredità
August 22, 2025
Dare la vita per costruire la pace: la lezione dei martiri d'Algeria
. | Alcuni dei monaci trappisti uccisi nel 1996 in Algeria dai terroristi
A cosa serve diventare un martire? Non se lo sono neppure chiesti i diciannove beati d’Algeria, uccisi dai terroristi del Gruppo Islamico Armato tra il 1994 e il 1996. Non hanno avuto modo di chiederselo i 150mila musulmani uccisi dallo stesso odio nel decennio nero del Paese nordafricano. Come ha detto al Meeting suor Lourdes Miguélez Matilla, che ha visto assassinare suor Esther e suor Maria solo perché la precedevano di pochi passi, «credo che Dio abbia preservato la mia vita per essere testimone della mia fede e dell’amore per il popolo algerino».
Quell’amore è stato fissato nell’eternità da due pallottole: lei poteva fuggire e non l’ha fatto. Ma i martiri civili, loro, non ebbero alcuna scelta: «Migliaia di noi sono morti senza un motivo in quegli anni», ha ricordato infatti Nadjia Kebour. Algerina, musulmana e docente del Pontificio Istituto Studi Arabi e islamistica, ha preso la parola con suor Lourdes al convegno sulle vite donate nel Paese nordafricano. Una delle beatificazioni più desiderate da papa Francesco e alla quale Martino Diez, docente dell’Università Cattolica, con Fondazione Oasis e Libreria editrice vaticana ha dedicato la mostra “Chiamati due volte” presentata per la prima volta al Meeting.
Quella di ieri è stata la giornata della gratitudine ma anche della ricerca di nuove vie di dialogo l’islam, nella logica del “costruire con mattoni nuovi” nei deserti dell’anima, che impronta quest’edizione della kermesse riminese. Obiettivamente, è difficile dire se sia più facile costruire in un deserto creato dall’odio religioso o in quello dell’individualismo della ricca Europa. Sempre al Meeting, infatti, ha preso la parola il vescovo di Trondheim Erik Varden. Anche lui trappista come i sette monaci sequestrati e assassinati a Tibhirine. Il presidente della Conferenza episcopale della Scandinavia ha esaminato il tema del Meeting, tratto da “La Rocca” di Thomas Stearns Eliot, alla luce dei testi biblici, riportando il pubblico alle dinamiche della creazione divina e della violenza umana, al marchio di Caino, che simboleggia l’esclusiva competenza di Dio nel far giustizia, e alla precarietà della convivenza umana – «conflitti sorgeranno, ma nessuno può restare in modo permanente nel conflitto e tutti hanno bisogno di essere riconciliati, infatti il giorno dell’espiazione è un precetto e chi non si umilia in quel giorno viene escluso dal corpo sociale». Già nell’Antico Testamento, l’accoglienza e la convivenza con lo straniero sono un precetto divino che ricorda all’uomo i limiti della propria condizione di “ospite” del Creato; tuttavia per arrivare a dialogare con l’altro è necessario credere in qualcosa. «Eliot coglie che “il deserto è nel cuore di vostro fratello” – ha rammentato a tutti il presule norvegese – e vede insinuarsi nel mondo tendenze come egoismo, relativizzazione, invidia, oblio di Dio, eclissi del soprannaturale». La reazione è la paura. «Ci circondiamo di muri ma non costruiamo un focolare. Scordiamo che dove non c’è tempio non ci saranno dimore. Se l’uomo non ha il concetto di sacralità non può trovare la convivenza. L’estraneità sembra il nostro destino: l’eredità di Caino ci sovrasta anche quando le città sono enclave recintate».
L'arcivescovo di Algeri, il cardinal Vesco, al Meeting - Ansa
L'arcivescovo di Algeri, il cardinal Vesco, al Meeting - Ansa
Una descrizione che accomuna le città europee all’Algeria degli anni Novanta e rende “utile” il martirio: suor Lourdes ha portato una testimonianza molto forte su questo tema – seguita dagli interventi del cardinale Jean-Paul Vesco, arcivescovo metropolita di Algeri, e di Thomas Georgeon, abate del monastero di La Trappe, postulatore della causa di beatificazione dei 19 martiri d’Algeria. «Siamo qui per convivere con il popolo, diceva il cardinale Duval, sapendo che entrambi siamo salvati in Cristo, anche se loro non lo sanno»: ecco come ha motivato la scelta di restare mentre 700 chiese venivano trasformate in moschee e il Gia seminava il terrore nella popolazione. «Per noi fu un tempo di grazia, perché crescemmo nella fede – ha detto –. Il vescovo di Orano ci diceva che è più importante dare la nostra vita per salvare il popolo che ritirarci per salvare noi stessi». Monsignor Pierre Claverie fu ucciso da una bomba con il suo autista nel 1996, a pochi mesi dal massacro dei sette monaci di Tibhirine.
Dopo l’assassinio delle consorelle agostiniane, Lourdes dovette accettare il rimpatrio: «Avevo il cuore a pezzi. Come se avessi tradito il Signore. Piansi molto». Tornò anni dopo, riaprì il convento e ricominciò a lavorare con i poveri: «Volevamo offrire un segno di perdono e fiducia al quartiere. Abbiamo iniziato dalle lezioni di sostegno per i bambini problematici e abbiamo costruito uno spazio di pace e ascolto, che adesso è apprezzato in tutto il quartiere, con l’aiuto di animatrici algerine. Le stanze in cui vivevano le sorelle assassinate sono state convertite in uno spazio di solidarietà». Secondo il cardinale Vesco la forza di questa Chiesa di martiri è nella sua unità, nella fratellanza che coltiva e nella sua presenza disarmata. «Proprio perchè disarmata è disarmante. Disarmalo, disarmami, disarmaci – ha esclamato ieri –. Quale preghiera più urgente possiamo rivolgere in questi tempi di corsa sfrenata agli armamenti?».
L’abate Georgeon, dal canto suo, ha ribadito che «il compito della Chiesa missionaria è dimostrare che una coesistenza fraterna e rispettosa è possibile tra le religioni. Nel mondo di oggi i martiri ci insegnano cosa significa la perseveranza, la fedeltà e l’amicizia. Loro ci mostrano che per entrare in dialogo dobbiamo essere umili e i frutti arrivano. Alle esequie di monsignor Claverie una donna musulmana ha detto che lui era il suo vescovo perché quando lei aveva attraversato un forte momento di crisi l’aveva aiutata a ritrovare le radici dell’islam. Questi martiri possono essere considerati ispiratori dell’enciclica Fratelli tutti». Ricondotto allo scenario della società intravista da Eliot, ha convenuto il postulatore, «il loro martirio non è “servito” a nulla, perché hanno dato la vita nella più bella gratuità. In un mondo in cui nulla è gratuito». D’altro canto, come ha ricordato Varden in un altro momento del Meeting, «essere Chiesa è fare di noi la dimora dello Spirito e avere parole che altri non pronunciano: ricorda la vita e la morte e ciò che l’uomo vorrebbe scordare. Rimbocchiamoci le maniche con coraggio: dove i mattoni sono caduti costruiremo con pietra nuova, ma dovrà essere una costruzione destinata a durare non solo per una stagione. Nella nostra società è andata perduta la nozione dello scopo dello stare insieme: perché ciò di cui l’uomo ha bisogno non è solo una “casa” ma una “dimora”, dove la luce c’è e rimane accesa e per costruirla serve l’amore. Solo quando saremo diventati tempio il nostro lavoro sarà compiuto e non prima».

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