Cosa ci insegna la morte di Paolo, vittima di bullismo
«Ragazzo, chiedi aiuto, non sentirti solo, non vergognarti. Chi sta sbagliando non sei tu»

Una storia che non si può sentire senza provare sdegno e dolore. Paolo si è tolto la vita a 14 anni perché alcuni ragazzi lo prendevano in giro. Ha resistito, una, due, cento volte; ha tentato di reagire, infine ha ceduto. Va sotto il nome di “bullismo” questo vigliacco modo di relazionarsi con persone diverse da noi per il colore della pelle, convinzioni personali, religiose, atteggiamenti o abbigliamenti vari. Siamo portati a pensare che di bullismo soffrano solamente i più giovani: non è vero, questa epidemia colpisce a ogni età. Un morbo malefico dal quale occorre guarire al più presto.
In fondo dove affondano le radici le varie mafie se non nella sopraffazione del più forte sul più debole? Si sceglie un soggetto, si mettono in evidenza le caratteristiche che lo differenziano dal resto del gruppo – saranno il taglio dei capelli, il colore del vestito, un difetto fisico, o solamente un modo diverso di intendere la vita – gli si fa terra bruciata attorno, lo si umilia. Il ragazzo preso di mira sa che non può farcela di fronte alla tenacia del gruppo.
Dovrebbe chiedere aiuto, denunciare l’accaduto ai genitori, agli insegnanti, ma pensa che sarebbe peggio: il branco si farebbe più feroce. Ed ecco che si rifugia in se stesso e finisce col credere davvero di essere diverso. Il dolore che prova, già grande, diventa insopportabile. Paolo, però, sembra che lo avesse fatto, avesse cioè raccontato ai genitori quanto andava accadendo. Ma, chiunque tu sia: parla! Parla con i tuoi genitori, con i tuoi insegnanti, col tuo parroco, se vai a Messa.
Non esitare a chiedere aiuto. Chi sta sbagliando non sei tu. Tu non hai niente da nascondere, da vergognarti; tu sei unico, la tua vita è sacra, come sacra è la tua sensibilità. Grida, ragazzo, grida tutto il tuo malessere, la tua rabbia, il tuo tormento. Non chiuderti in casa, non aver paura, non lasciarti sopraffare dai pensieri cattivi.
Purtroppo, è vero che il mondo degli adulti, anche in questo campo, non sempre sa essere di esempio. Si scrive e si parla come se a leggerci e ad ascoltarci ci fossero solo Premi Nobel. Non si vuol capire che le parole, vere armi a doppio taglio, possono fare bene ma anche tanto male.
Penso alla vicenda dolorosissima del povero Charlie Kirk, ucciso in America. Aveva ed esprimeva le sue idee, che non per forza dovevano essere condivise. Aveva il coraggio e la voglia di mettersi in discussione, cercando i giovani con cui dialogare, discutere, argomentare. Chiunque poteva prendere le distanze da lui, lasciare il luogo dove si stava esibendo o mandarlo, in cuor suo, a quel paese. È stato ucciso. Un giovane padre, ucciso per la sua visione della vita diversa da quella dell’assassino. Un uomo che non minacciava, non insultava, non lanciava bombe, non tagliava teste, non stuprava i bimbi, non trafficava esseri umani. È stato ucciso. È morto. Abbassiamo la testa e recitiamo una preghiera, se siamo credenti. E se non lo siamo, facciamo almeno silenzio.
La violenza, da qualunque parte giunga, è sempre da rigettare. È sempre orripilante. E, invece, no. Siamo stati costretti, in questi giorni, a sentire da certuni che le morti non sono tutte uguali. Che chi muore per un’idea diversa da quella dell’intellettuale di turno, non merita lo stesso sdegno di chi viene ucciso nella sua stessa barricata. Abbiamo ripetuto tante volte le parole falsamente attribuite a Voltaire: «Io combatto la tua idea diversa dalla mia, ma sono pronto a battermi, fino al prezzo della mia vita, perché tu, la tua idea, la possa esprimere liberamente». Questa dovrebbe essere la tanto declamata democrazia. Tutti vogliamo il bene del nostro popolo e della nostra gente. Occorre, però, tradurre in pratica questo desiderio. Le soluzioni sono diverse. Il male e il bene faranno a pugni fino alla fine del mondo. “Vinca il migliore!” ci ostiniamo a gridare. Poi, un giovane innocente viene ucciso e c’è gente incapace di versare una lacrima sulla sua morte perché, pensandola diversamente da loro, era – dicono - pericoloso.
Non va, fratelli, non va. Che tenerezza vedere in televisione il papà di Paolo piangere a singhiozzi. Ha perso il suo bambino, il figlio che adorava. La vita si è accanita contro di lui e della sua signora perché suo figlio si è imbattuto in un gruppo di deficienti maleducati – cioè, educati male, malissimo – e vigliacchi. Un abbraccio grande ai genitori di Paolo. E un caldissimo invito alla prudenza unita alla sapienza a chi svolge il gravoso compito di educatore: genitori, insegnanti, giornalisti; e a tutti coloro che, come me, in questo momento, stanno pigiando un tasto sul computer.
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