Adattare le città alle donne non è solo una questione di panchine rosse
A fare la differenza, per le donne e per le categorie più fragili, è la presenza di spazi pubblici, servizi di prossimità e centri di aggregazione gratuiti. E l’Italia, su questo, ha molto da imparare dagli austriaci

Sono trascorsi undici anni esatti dalla posa della prima panchina rossa in Italia. Era il 26 novembre 2014 e, all’indomani della Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne, la Circoscrizione 6 del Comune di Torino la installò di fronte all’Ecomuseo urbano per commemorare le donne uccise dalla «violenza feroce di compagni, mariti, amici, parenti, conoscenti, a volte sconosciuti». L’iniziativa finì subito nel mirino di stampa e politica e, a distanza di anni, fu tiepidamente tollerata. Da allora il progetto, ora in mano agli Stati generali delle donne Hub, si è diffuso in tutta Italia (e in qualche altro Paese europeo) con l’installazione di centinaia di panchine «simbolo del rifiuto della violenza sulle donne». «Il merito delle panchine rosse è quello di portare dentro allo spazio pubblico un tema che, normalmente, ne è escluso – commenta Florencia Andreola, ricercatrice in Storia dell’architettura e co-autrice, assieme ad Azzura Muzzonigro, dell’Atlante di genere di Milano e di Bologna –. È importante lasciare segnali, dentro alle nostre città, dei problemi strutturali che vive la nostra società. Le panchine rosse sono un modo, come un altro, per interrogare la cittadinanza sulla violenza di genere». Ma il progetto, secondo l’urbanista di genere, non è «una panacea»: per rendere il tessuto delle nostre città più adatto alle esigenze di donne e categorie fragili, si dovrebbero «abbattere le barriere architettoniche, costruire spazi pubblici gratuiti e favorire i servizi di prossimità». Da anni, Florencia Andreola analizza le città italiane raccogliendo dati sulle esigenze delle diverse fasce di cittadinanza, sui trasporti e sugli spazi pubblici. A Milano e a Bologna, in particolare, ha mappato centinaia di luoghi d’interesse: asili, ospedali, giardini pubblici, fermate degli autobus, consultori, etc. Di questo – spiega la ricercatrice – si occupa l’urbanistica di genere: «Studiamo quali sono le differenze nell’esperienza della vita quotidiana in città legate alla mobilità, all’uso degli spazi gratuiti e all’accesso ai servizi. Cerchiamo di capire se esistono delle discriminazioni sulla base del genere, delle fasce d’età, dell’eventuale background migratorio e della condizione socio-economica. Non ci occupiamo solo delle donne, ma di tutte le persone che restano ai margini». Il risultato? Che le città italiane «hanno ancora molto lavoro da fare per essere inclusive».
Il primo ostacolo da rimuovere, per alleggerire la quotidianità di donne e persone con disabilità, sono le barriere architettoniche. «Partiamo dal fatto che il 75% del lavoro di cura è ancora sulle spalle delle donne (dati Organizzazione internazionale del lavoro, Onu, ndr) – spiega Andreola –. Questo implica che parliamo di persone spesso non autonome, come gli anziani o le persone disabili che, in molte città italiane, non sono tutelate». La “città delle donne”, insomma, non è fatta di marciapiedi stretti e scalini alti. «La scarsa autonomia di movimento – continua la ricercatrice – genera anche una grande dipendenza dalle automobili. Se si considera che le donne hanno meno patenti degli uomini (il 63% delle donne contro l’85% degli uomini, ndr), il risultato è che le donne sono sempre più dipendenti dai mezzi pubblici». Il quadro si aggrava nelle città di provincia e nelle aree interne, dove i trasporti pubblici sono meno capillari. Nei centri urbani, però, a preoccupare la maggior parte delle donne è la sicurezza. O, quantomeno, la percezione della sicurezza. Secondo la ricerca “Step up”, a cui ha collaborato anche Florencia Andreola, nel 2024 solo l’8,27% degli uomini si sentiva insicuro a camminare di notte a Milano, contro il 57,05% delle donne. «La percezione varia molto anche in base all’età – spiega la ricercatrice – ed è dovuta, almeno in parte, al racconto che fanno delle città politica e media». Ma di soluzioni, per migliorare la “camminabilità” delle nostre città, ne esistono molte. E tutte, secondo la ricercatrice, passano dalla costruzione di spazi pubblici e gratuiti: «Serve riprogettare gli snodi della città in modo che donne, bambini e anziani possano tornare a popolarli dalla mattina alla sera – spiega la ricercatrice –. Parlo di luoghi non legati al consumo: parchi con tavoli e panchine, spazi coperti dal verde per essere utilizzati anche sotto al caldo estivo e persino palcoscenici dove ascoltare la musica. Luoghi di aggregazione, insomma». La costruzione di aree accessibili a tutti, popolate da servizi gratuiti di quartiere, migliorerebbe la percezione di insicurezza non solo tra le donne. «In questo modo affronteremmo il problema della sicurezza senza toni securitari – commenta la ricercatrice – e faremmo in modo che i gruppi che creano i maggiori problemi non vengano ghettizzati, ma tornino a popolare gli spazi comuni. Le persone, in questo scenario, sarebbero un presidio spontaneo contro l’insicurezza».
Quando descrive queste piazze e questi giardini, Florencia Andreola ha sempre in mente un modello preciso: Vienna. Nella capitale austriaca, oltre 60 progetti pilota hanno rivoluzionato negli ultimi trent’anni il tessuto urbanistico della città, rendendolo più accessibile alle donne e alle categorie fragili. «Questi spazi gratuiti nati a Vienna permettono anche alle donne di rompere l’isolamento domestico. Faccio un esempio: se non esistono spazi dove lasciare mio figlio a giocare in sicurezza da solo, non potrò mai immaginare di staccarmene o di uscire di casa». Ma il modello austriaco, secondo Andreola, non è replicabile in Italia: «A Vienna lavorano da anni per la costruzione di una città attenta alle donne e alle persone con fragilità socioeconomiche. In Italia, invece, la questione abitativa sta avendo un impatto negativo sul tessuto urbano: i centri si spopolano di residenti e sempre più cittadini poveri, donne in primis, sono costretti a vivere in quartieri dove i servizi sono più scarsi». Perciò, più che rifarsi al “modello Vienna”, in Italia la “città delle donne” – conclude Andreola – «dovrebbe ripartire da servizi come asili, bagni pubblici o piste ciclabili».
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