mercoledì 17 agosto 2022
Il ginecologo milanese è morto a 77 anni, il giorno dell’Assunzione
Leandro Aletti in una foto d'archivio

Leandro Aletti in una foto d'archivio - Ansa

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Più che ginecologo di trincea, a lungo docente nella Seconda clinica di Ostetricia e ginecologia dell’Università di Milano, Leandro "Leo" Aletti, scomparso l’altro ieri, 15 agosto, a 77 anni, era un combattente per la vita, un militante senza incertezze e senza paura, pronto a schierarsi in ogni momento a fianco di quello che madre Teresa di Calcutta definiva «il più povero tra i poveri», il nascituro.

Una battaglia che ha condotto fino all’ultimo respiro sulla base delle sue salde conoscenze scientifiche ma, soprattutto, sulle sue ancora più profonde convinzioni umane, etiche, dottrinali, di fede, ragioni radicate nella sua lieta devozione mariana. Ora, sarà certamente un caso che il Signore l’abbia chiamato a sé proprio il giorno dell’Assunzione di Maria. Oppure no. Ma è certo che se si potesse scegliere il giorno in cui congedarsi da questa vita, Aletti avrebbe senza alcun dubbio indicato proprio la ricorrenza dell’Assunta.

Per capire il suo impegno a tutto tondo per la vita nascente, occorre guardare alla sua sconfinata pietà mariana. Una volta, nei terribili giorni del gennaio 1989, quando Leo Aletti e il collega Luigi Frigerio fecero esplodere il "caso Mangiagalli", si trovò a rivelare al nugolo di cronisti che lo attendevano di fronte alla clinica milanese, in via della Commenda, il senso del suo impegno.

Difendendo le donne da quella che lui definiva l’ipocrisia dell’aborto, raccontò, non faceva altro che alzare un inno di lode al grembo della Vergine Maria, riferimento ideale per tutte le mamme. Spiegazione certamente innestata con saldezza nella teologia mariana, ma un po’ paradossale in quella circostanza e soprattutto difficilmente comprensibile agli occhi di cronisti impastati di "nera" che attendevano, senza troppi voli spirituali, di capire quali fossero i reati segnalati nei reparti della "Mangiagalli".

Aletti e Frigerio avevano infatti denunciato il ripetersi di interruzioni di gravidanza dopo i 90 giorni, con presunte violazioni della legge 194. Interventi che sarebbero stati portati a termine senza, si diceva, che i responsabili sanitari ritenessero di intervenire.

Fu una vicenda complessa, con lunghe conseguenze giudiziarie, interrogazioni parlamentari, ispezioni, scontri politici, bufere di correnti contrapposte anche all’interno dello stesso ospedale milanese, che finì per essere liquidata come una manovra dell’ala dura di Cl contro la legge 194.

Semplificazioni che oggi, se da un lato lasciano ancora dentro tanta amarezza, dall’altro mostrano anche alla luce della parabola esistenziale di Leo Aletti, come la ferita sia tutt’altro che rimarginata e il dramma dell’aborto rimanga questione personale e sociale che in alcun caso può essere declassata a "male minore".

Su questo il docente e ginecologo non ha mai fatto sconti. Una fermezza la sua, che poteva anche essere scambiata per rigidità, ma solo da chi non conosceva la sua profonda vicinanza a tutte le donne – al di là di appartenenze e convinzioni etiche – che approdavano alla Mangiagalli sotto il peso di una gravidanza difficile.

Aletti si spendeva con ognuna di loro, a tutte spiegava senza risparmiarsi come l’aborto sia non solo decisione terribile e irrimediabile, ma come le sue conseguenze si ripercuotano per tutta la vita, in modo indelebile: «Ci sono ancora donne che a 60-70 anni – raccontava – non riescono a liberarsi dal peso di una decisione presa mezzo secolo prima». Ecco perché il suo impegno contro l’aborto è stato, per decenni, intenso, convinto e senza compromessi.

Lascia la moglie Maria e sette figli, di cui uno Riccardo è sacerdote nella fraternità di San Carlo Borromeo. Aveva anche un ottavo figlio, scomparso in giovane età.



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