venerdì 14 dicembre 2018
Il comandante e capomissione della Ong spagnola che soccorre migranti in mare racconta "perché nessuno mette i suoi figli su una barca a meno che l’acqua non sia più sicura della terra"
Il comandante Riccardo Gatti di Open Arms (Operazione Mediterranea / Mich Seixas)

Il comandante Riccardo Gatti di Open Arms (Operazione Mediterranea / Mich Seixas)

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Al mare racconta di esserci arrivato quasi per caso: ma tra le onde Riccardo Gatti è riuscito a salvare oltre 4mila vite umane. Quasi un terzo del numero di abitanti del suo paese natale, un piccolo comune nel Lecchese, Calolziocorte, lasciato a 22 anni per trasferirsi in Spagna.
Dal 2016 è capomissione e comandante degli equipaggi che, con la Ong spagnola Pro Activa Open Arms, si alternano nel Mediterraneo per prestare soccorso ai naufraghi e prima ancora nel 2015, è stato a bordo delle navi di soccorso nel mar Egeo con Medici Senza Frontiere. È Riccardo stesso - seppur alcuni lo abbiano dipinto come un “eroe” dei diritti umani - a minimizzare la sua vocazione da soccorritore: «Si è trattato solo di trovarsi al momento giusto nel posto giusto», «senza fare nulla di più del proprio lavoro». Un senso del dovere integro e raro che lo sostiene tuttora nonostante vada avanti la campagna di delegittimazione dell'operato delle Ong che prestano soccorso sul «confine più pericoloso d’Europa, il Mediterraneo».

Per la cronaca, la nave Aquarius meno di una settimana fa ha comunicato che non proseguirà con i soccorsi in mare, mentre a Open Arms cinque giorni fa è arrivato l'avviso di conclusione delle indagini della Procura di Ragusa per l'approdo di 216 persone a Pozzallo lo scorso marzo.

IL PUNTO SULLE INCHIESTE SULLE ONG A UN ANNO DI DISTANZA


«In Spagna a Palma di Maiorca - racconta Riccardo Gatti, oggi 40enne -: ho scoperto il mare in modo fortuito, ero affaticato dal mio lavoro nel sociale e cercavo un cambiamento di vita». Dopo aver imparato a navigare in barca a vela, Riccardo ottenne il suo primo incarico come semplice marinaio a bordo di un veliero che attraversava l’oceano Atlantico. E per chi crede che Gatti sia un "supereroe del mare" gli basti sapere che al suo terzo giorno di traversata atlantica, cominciò a rimettere e smise di contare le volte che lo fece, soltanto dopo la diciottesima vomitata, maledicendosi all'idea di trovarsi in mezzo al mare per le successive tre settimane.
Da allora, il mare non lo ha più lasciato, e dopo qualche anno a guidare gli yacht extralusso che, come ammette lui stesso «rappresentano tutto quello che odio nel mondo», Riccardo scelse di imbarcarsi con Medici Senza Frontiere che nell'estate 2015, quando la rotta balcanica era ancora la via più utilizzata per raggiungere l'Europa: «Prestavo soccorso alle persone che approdavano sull'isola di Leros». Mentre più a nord, a poco più di 100 miglia di distanza il fondatore di Open Arms, Oscar Camps, salvava altre vite umane a Lesvos. È stato allora che i destini dei due uomini si sono incrociati per la prima volta: con Open Arms che era decisa ad avviare una missione umanitaria nel Mediterraneo e Gatti che rappresentava la persona più adatta a ricoprire il ruolo di comandante dapprima a bordo della nave Astral e poi della Golfo Azzurro e infine della nave Open Arms, coordinandosi con gli ufficiali della Guardia Costiere del proprio Paese.

Si arriva così all'autunno del 2016 e dopo la seconda missione fu chiaro al comandante Gatti "perché nessuno mette i suoi figli su una barca a meno che l’acqua non sia più sicura della terra" usando le parole della poetessa Warsan Shire: il cosiddetto push factor è quello che spinge le persone a mettere le proprie vite in balia del mare. Sono quelle condizioni disumane, quei traumi, quelle torture e violenze che si riescono a raccontare soltanto a distanza di tempo, quando finalmente ci si sente al sicuro, che spingono a reagire e a credere in un futuro forse di speranza: «Della mia prima missione ho ancora in mente l'immagine di una donna che non prendeva in braccio il suo bambino appena nato. Nato da uno stupro». Due vite salvate, due esistenze completamente distrutte.

Ancora più funesto è il ricordo della seconda missione del comandante sul veliero Astral che «può trasportare al massimo 60 migranti a bordo» spiega ancora Riccardo Gatti, tornando coi ricordi a quando si ritrovò davanti oltre 2mila e 200 naufraghi da soccorrere: «Alle 5 del mattino avvistammo un barchino con circa 60 persone a bordo, ma avvicinandoci tutt'intorno era una distesa di gommoni e c'era pure un barcone con oltre mille persone che si sbracciavano. Avvisai i soccorsi e iniziammo a rimorchiare la carretta e i gommoni per avere tutte le imbarcazioni nel giro di un miglio e poter procedere più velocemente con le operazioni di soccorso. Distribuimmo i giubbetti di salvataggio ma ne avevamo solo 450».

Ma nell'attesa che altre navi arrivassero ad aiutare l'Astral la tensione salì alle stelle per i naufraghi e per i soccorritori stessi: alcune delle persone a bordo della carretta, agitandosi finirono per sbilanciare lo scafo del barcone. «Fu in quel momento che vedemmo i primi corpi cadere in acqua. Corsi in coperta per staccare il tavolo da pranzo e un'altra volontaria fece lo stesso con l'altro tavolo a bordo dell'Astral: li gettammo in mare», in un'ultimo gesto disperato «dopo aver già lanciato in acqua tutto quello che avevamo a disposizione: i tubi salvagenti, le zattere di emergenza e i parabordi».

Soltanto alle 3 del pomeriggio iniziarono ad arrivare le navi della Marina militare italiana per effettuare il trasbordo, ma solo dopo aver accertato che non ci fossero scafisti a bordo.

«Restammo gli ultimi a lasciare quel tratto di mare»: «dopo undici ore di tensione sull'ultimo gommone rimasto trovammo 29 cadaveri, incastrati sul fondo». Gatti conserva ancora le fotografie di quella strage senza colpevoli: gambe e braccia aggrovigliate, corpi uno sull'altro che non si distinguono, che quasi non sembrano umani. «Non avevo alcuna intenzione di lasciare i cadaveri in mare, per cui agganciammo quell'ultimo gommone attraverso la placca del motore all'Astral e navigammo per le successive 29 ore a un nodo e mezzo di velocità per evitare che i corpi si ribaltassero». Un ultimo atto di coraggio che restituì un poco di dignità ai sommersi e ai salvati che tornarono a "casa", quella che a "nessuno verrebbe mai di lasciare".




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