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Se il populismo è anche questione di popolo

Alfonso Berardinelli venerdì 5 gennaio 2018
Sul numero 244 di "Una città" compare un'intervista del direttore responsabile Gianni Saporetti a Nadia Urbinati, docente di Teoria politica alla Columbia University nonché collaboratrice di "Repubblica". Il tema trattato è da tempo sulla bocca di tutti: "populismo". Rivista specializzata in lunghe interviste in cui uno studioso o un testimone sono portati a dire e spiegare tutto, "Una città" riesce a offrire ai suoi lettori trattazioni sia esaurienti che efficacemente comunicative. Di rado si possono leggere sulla stampa quotidiana e settimanale approfondimenti così accessibili e competenti. Quella della Urbinati è una vera e propria lezione che mi ha fatto capire meglio perché del termine "populismo" si stia così spesso abusando. Secondo la studiosa, l'idea è tanto ambigua (non ha «un nucleo di principi definibile e sul quale dibattere») quanto contestuale («lo si può definire solo in relazione a un altro regime, per esempio alla democrazia»). Finora avevo percepito più il versante culturale che quello politico del populismo. Ma ora vedo bene che lo si usa così ossessivamente perché (cosa strana) soprattutto le sinistre attuali, un tempo piuttosto ovviamente populiste, sono oggi spaventate dal fatto che l'appello generico, demagogico al "popolo" ha recentemente prodotto movimenti e formazioni politiche che attaccano élite e caste dirigenti, la loro chiusura in se stesse, la loro insensibilità sociale, la loro tendenza ad autoperpetuarsi. La situazione che negli ultimi decenni ha cambiato i connotati degli schieramenti politici, è determinata dagli effetti combinati di stagnazione economica, debolezza decisionale dello Stato, mancanza di lavoro e grandi migrazioni da est (Europa ex comunista e Asia) e da sud (Africa). Gli europei di ogni classe sociale si sentono "ceto medio" assediato benché impoverito e i più istintivamente xenofobi, accade che siano i più socialmente svataggiati. Così il populismo, che una volta era idea e sentimento di sinistra, ora è diventato di destra, cioè aggressivamente autodifensivo. Il fatto che lo Stato e i partiti tradizionali abbiano nel frattempo perduto credibilità, crea populismi incentrati sulla figura «di capi e leader autoritari», pericolosi per le liberal-democrazie nel caso che arrivino a conquistare il potere. C'è tuttavia (e non va trascurata) una diversa, più sostanziale accezione del termine "populismo". È l'idea che il popolo, «chi sta in basso», la maggioranza priva di privilegi, subisce e quindi vede più chiaramente ciò che nella società non funziona. Del punto di vista del popolo, nessuna democrazia e nessuna sinistra potrà mai fare a meno.