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Alfredo Reichlin invita a rifondare il linguaggio perduto della politica

venerdì 2 gennaio 2015
Alfredo Reichlin, oggi ottantenne, per decenni figura di spicco nella dirigenza del Partito comunista italiano, pubblica ora un discorso di respiro ormai ignoto nelle correnti discussioni politiche. La prima cosa da dire è che la libertà e mobilità intellettuale impediscono a Reichlin di cadere sia nella retorica moralistica che nel gergo dei politologi. In apertura del suo Riprendiamoci la vita. Lettera ai nipoti (Editori Internazionali Riuniti, pagine 88, euro 12) dice che le sue sono «considerazioni molto sommarie». Ma a quanto risulta, solo uscendo dalle strettoie verbali e mentali in uso nelle tribù politiche di oggi si riesce a dire qualcosa di sensato. Il primo istinto di Reichlin, che ha vissuto dall’interno l’intera parabola del comunismo italiano, è l’istinto di creare un nuovo senso comune politico, che avvicini le più diverse generazioni.Il “collasso della sinistra” non va perciò negato. Ma è a partire dalle sue ragioni (anzitutto i mutamenti sociali indotti dalla globalizzazione) che si deve cercare «la possibilità di ricollocare il bisogno di riformismo in un nuovo orizzonte». Il capitalismo degli ultimi vent’anni, «governato dalle logiche del mercato finanziario», ha fatto saltare il rapporto fra sviluppo capitalistico e democrazia. Questo nuovo universo, tuttavia, non è privo di centro: «la questione più concreta su cui fare leva è il destino e il ruolo del lavoro. Il lavoro non è tutto. Ma misuriamo bene che cosa significa il venire meno del grande edificio storico del lavoro moderno», poiché con l’avvento delle nuove tecnologie «una buona parte delle nuove generazioni non troverà più lavoro». Questo significa però che bisogna avere un’idea diversa di società, di cultura e di vita individuale.È un discorso che Reichlin fa al suo partito di un tempo e ai suoi dirigenti di oggi: «Davvero servono nuove idee e una nuova immaginazione sociologica. Noi da anni non inventiamo niente». Ma è soprattutto un discorso alla nazione italiana delle nuove generazioni, da parte di un riformista che si è liberato dei vecchi concetti socialisti, ma non della capacità di attualizzare le aspirazioni all’uguaglianza e alla giustizia.