Opinioni

L’eccezione non è il bene. Vita e morte: la Consulta e il legislatore

Giuseppe Anzani giovedì 21 febbraio 2019

In Parlamento si torna a discutere di eutanasia. Con una sorta di spinta, di fretta: sembra di sentire sul collo il fiato della Corte costituzionale, che sta tenendo sospeso il "processo Cappato" e il responso sulla legittimità dell’art. 580 del codice penale in attesa appunto che il Parlamento rimaneggi il sistema entro metà settembre. Ma c’è un’evidente dismisura fra la questione processuale della punizione o meno di chi ha portato in Svizzera a uccidersi una persona disabile e sofferente che voleva morire, e l’introduzione in Italia di una legge che legalizzi l’eutanasia, come vorrebbe la proposta radicale. C’è dismisura tra l’inquadramento di una vicenda singolare (un caso-limite) e il problema generale delle regole dedicate alla vita e alla morte, al preteso "diritto di morire quando e come si vuole" e al simmetrico dovere sociale (o almeno libero e privato) di assecondarlo.

Il Parlamento resta sovrano nel decidere il se e il come, l’ambito e il contenuto. Di per sé, il carattere "incidentale" della questione (l’inerenza a un processo specifico) chiederebbe limitato lavoro. L’ambito sarebbe di per sé disegnato dalla sola figura della agevolazione del suicidio; non dunque l’eutanasia in toto. Il contenuto potrebbe essere un ritaglio di rinuncia a punire, in vicende singolari, sottomesse a controllo giudiziario; non dunque la rottura del principio che l’aiuto al suicidio è delitto. Del resto, per quanto anomala sia apparsa l’invadenza della Consulta nel dettare al Parlamento i compiti a casa (in luogo di "invitarlo", come di consueto accadeva, dichiarando frattanto inammissibile il ricorso) è giusto leggere la sua ordinanza per intero.

Essa smentisce che esista nella Costituzione e nella Cedu «la possibilità di ottenere dallo Stato o da terzi un aiuto a morire»; smentisce che l’aiuto al suicidio sia giustificabile «da un generico diritto all’autodeterminazione individuale». Rammenta che non solo da noi, ma «anche in numerosi ordinamenti contemporanei» l’incriminazione dell’aiuto al suicidio è funzionale «alla tutela del diritto alla vita, soprattutto delle persone più deboli e vulnerabili», verso le quali, anzi, lo Stato ha il compito di politiche pubbliche di sostegno. E menziona, in rassegna, le sentenze della Corte di Strasburgo (Pretty vs. Regno Unito, Haas vs. Svizzera, Koch vs. Germania) che ne rappresentano i capisaldi.

Persino la difesa di Cappato davanti alla Consulta ha racchiuso l’istanza non in una "scelta", ma in una feritoia di eccezionalità determinata, che non comporta "che esiste sempre e in ogni caso un diritto a lasciarsi morire". Quel che la Consulta ha scavato, dentro questo terreno, è l’ipotesi eccezionale di una patologia irreversibile, fonte di sofferenze assolutamente intollerabili, di una persona tenuta in vita a mezzo di trattamenti di sostegno vitale, e capace di decisioni libere. Ora l’opinione della Corte non ha potere di far giusto ciò che è sbagliato, ma forse può suggerire un margine di esonero da pena.

Riflettere sui paletti limitativi è imprescindibile. Restano poi ancora i quesiti etici, certo; ma almeno, per cominciare, il campo giuridico ricusa dilatazioni improprie. Il Parlamento se ne ricordi. Dal lato tecnico, il compito sarebbe di definire "quanto basta" per dirimere la vicenda Cappato fra le maglie dell’art. 580. Ma fare dell’eccezionale l’ordinario è un rischio da scongiurare. L’aiuto al suicidio è delitto persino in Olanda (art 294 cod. pen.) se non praticato da medico secondo i protocolli; e in Svizzera (art. 115 cod. pen.) se l’aiuto è dato per motivi "egoistici". Da noi, il "caso-limite" non diventi grimaldello per una frana etica. Un male, a volte, si può anche decidere di non punirlo, e resta pur male. Chiamarlo bene e farne regola, è una sventura che si paga cara. Il diritto che asseconda le ragioni suicide non è l’orizzonte dei valori umani: l’aiuto alla morte lo avvia piuttosto a distruzione.