Opinioni

Indagine sui rider Uber. Siamo uomini o caporali?

Francesco Riccardi sabato 30 maggio 2020

C’è un’immagine – fra le tante che si trovano descritte nelle 60 pagine del decreto di commissariamento di Uber Italy emesso venerdì dal Tribunale di Milano – che rende plasticamente la distanza tra sfruttati e sfruttatori e l’avidità di questi ultimi. Il 18 febbraio scorso, dopo che la Procura di Milano ha ordinato la perquisizione delle sedi della Flash Road City, la società che intermediava i rider per conto di Uber, il titolare e la sua compagna vengono intercettati in una delle loro vetture, due Mercedes e una Porsche, mentre «si adoperavano per svuotare il contenuto della cassetta di sicurezza di cui avevano la disponibilità presso l’Istituto di credito (...)». Si tratta di 305.200 euro in contanti, somma immediatamente sequestrata dall’Autorità di polizia giudiziaria con l’accusa di riciclaggio. Nelle stesse ore, in una Milano nuvolosa e con qualche goccia di pioggia, decine di rider, reclutati in particolare fra i richiedenti asilo, pedalavano per consegnare panini e cene per conto di Uber flash a 3 euro netti a consegna. Assai meno di quanto scritto sulla stessa piattaforma di Uber. Decurtati, quei 3 euro per i quali peraltro non venivano versati i contributi, di un ulteriore 20% se i ciclofattorini non rispondevano a più del 95% delle chiamate. Rider ai quali venivano truffaldinamente sottratte anche le mance che gli ignari clienti aggiungevano direttamente ai pagamenti elettronici alla piattaforma. In due anni 21mila euro di mance e 61mila di cauzioni non restituite, finiti – secondo l’accusa – nelle tasche dei dirigenti della società anziché in quelle misere dei lavoratori.
Lo spaccato che la magistratura milanese ha portato alla luce – per come emerge dagli atti d’accusa – è quello di un bieco sfruttamento, di un vero e proprio caporalato, con minacce di violenza e soprattutto di disconnessione (di fatto un licenziamento definitivo, che non lascia altre possibilità di lavoro) per coloro che osavano lamentarsi o anche solo chiedere ciò che spettava loro. Per non parlare di malversazioni, evasioni fiscali e contributive per centinaia di migliaia di euro. Uno squarcio di luce su una porzione di realtà sotto i nostri occhi tutti i giorni, che sospettavamo, che alcuni sì avevano cominciato a denunciare, ma che la gran parte delle persone, per ignavia o per convenienza di consumatori, tende a rimuovere e non vuole realmente "vedere".
Ecco il punto. Ora non possiamo più dire che "non sapevamo", "non credevamo" fosse così. Ora abbiamo le testimonianze, le prove indiziarie e, si spera, tra qualche tempo anche le sentenze definitive che puniranno lo sfruttamento delle persone in difficoltà e tra di essi i più deboli, gli stranieri in attesa del permesso di soggiorno, ai quali italiani, italianissimi manager rubavano perfino le mance.
Gli interrogativi principali che emergono dalla vicenda, allora, sono due. Il primo riguarda in particolare le imprese e il sistema economico. Siamo semplicemente davanti a un caso di (presunte) "mele marce" – la società di intermediazione e la stessa Uber – o è il "sistema" dei servizi delle piattaforme tecnologiche che non può funzionare se non incorporando a priori l’idea di sottopagare e sfruttare il lavoro manuale e occasionale? Può esistere un modello di business per le nuove piattaforme che sia, non solo economicamente profittevole, ma soprattutto eticamente e socialmente responsabile? E come svilupparlo? La neonata associazione imprenditoriale Assodelivery, nel cui consiglio direttivo siede anche il rappresentante della commissariata Uber, farebbe bene a rifletterci e ad esplicitare il modello che pensa di applicare.
Il secondo interrogativo riguarda invece noi cittadini-clienti. Già lo scorso anno, all’apertura delle indagini della Procura milanese, ci eravamo chiesti fin dove ponevamo il nostro limite: quale trattamento dei lavoratori, cioè, fossimo disposti ad accettare quando si tratta di altri e non di noi. E se non fosse preferibile rinunciare a utilizzare tali servizi in mancanza di un trattamento equo e meglio garantito dei ciclofattorini. Oggi, a fronte di quanto emerge dalle indagini, l’interrogativo si fa più bruciante.
Possiamo in coscienza, seduti sul nostro divano, ordinare un hamburger da una piattaforma che sfrutta i lavoratori, non ne garantisce la sicurezza, ma anzi li minaccia e ruba le loro mance? Siamo pronti a esercitare il nostro ruolo di consum-attori consapevoli cercando di premiare le aziende che si comportano correttamente anche a costo di minori profitti? O preferiamo ancora chiudere gli occhi di fronte al malaffare che la magistratura ha squadernato davanti a noi? Alla fine dei conti, cosa scegliamo d’essere: fratelli degli sfruttati o clienti e complici degli sfruttatori? Siamo uomini o caporali?