Opinioni

Volti e compiti dell'Esecutivo. I pochi e il tanto

Marco Tarquinio sabato 22 febbraio 2014
Verissimo. Matteo Renzi si «gioca la faccia», e con lui i suoi ministri, soprattutto i tanti esordienti di questa compagine di governo asciutta, profon­damente ringiovanita e mai così paritaria (uomini e don­ne sono in esatto equilibrio numerico).
 
È un gruppo di lavoro molto, molto “politico” quello che il nuovo presi­dente del Consiglio ha costruito (e che il capo dello Sta­to ha vagliato con lui per un tempo singolarmente e so­noramente lungo, ma con esiti finali commentati con se­rena e convinta pacatezza). E bisogna ammettere che ci eravamo disabituati, dall’autunno del 2011 in qua, a ga­binetti ministeriali a tanto alta densità politica – sottoli­neata anche dalla conferma dei tre ministri chiave del Nuovo centro destra di Angelino Alfano, i più distinti e di­stanti dal Pd renziano, eppure per niente inconciliabili con un sano e ben calibrato programma riformatore.
 
È così politico il volto di questo governo che rischia di pas­sare inosservato un tratto distintivo che agli osservatori più acuti, dentro e fuori il Parlamento, non è invece sfug­gito: la solida “cerniera” tra la sfera dei partiti e la realtà di chi fa impresa e crea lavoro che è stata realizzata gra­zie alla chiamata alla guida di dicasteri cardine come E­conomia e Finanze, Sviluppo economico e Lavoro e Po­litiche sociali di tre figure di rilievo della scienza econo­mica applicata (Padoan), dell’industria (Guidi), della coo­perazione e del non profit (Poletti). Qualcuno grida al capolavoro. Qualcun altro, invece, dà sfogo alla delusione per un incompetente governo-topo­lino. Esagerazioni, eccitate o ingenerose.
 
Ma è un fatto che volti e nomi sono sempre un segnale. Ed è netto il segnale composto da Renzi, nel tentativo di rifondar​e la maggio­ranza “senza alternative e senza scampo” requisita con più di una ruvidezza e un rapido grazie finale a Enrico Letta: si cambia musica, anche se lo spartito (largamente dettato da Bruxelles) è ancora lo stesso. E questo vuol dire che, a­desso, in fatto di riforme e di buone pratiche amministra­tive, o si fa tutto ciò che serve all’Italia o niente verrà per­donato al “rivoluzionario” leader che ha preteso di inte­starsi i passaggi decisivi di una stagione comunque cruciale. È una rivendicazione di ruolo, e una insistita dichiarazio­ne di fiducia, al cospetto di un Paese che si sente spiazza­to, che ormai non riesce più a nascondere fatica e scora­mento, che non è disposto a riconoscere facce “di riserva” a questa politica (e, probabilmente, sta dubitando anche del mito sulfureo di una risolutiva antipolitica).
 
Il «Renzi I» nasce con pochi ministri e tante cose da fare. Nessuna sarà di troppo, se servirà a unire, a liberare e a sostenere le energie buone degli italiani, se ridarà dignità alla famiglia e al lavoro. E se saprà dimostrare ai più gio­vani che questa è una terra dove è possibile progettare, costruire, essere onesti, crederci.