Opinioni

Fuori dal tempio. Mafia: 25 anni fa il grido di Wojtyla

Giuseppe Savagnone giovedì 10 maggio 2018

A venticinque anni di distanza dal grido appassionato di Giovanni Paolo II, nella Valle dei Templi di Agrigento, rivolto ai mafiosi perché si convertissero, la comunità cristiana siciliana, assieme ai suoi vescovi, si trova a fare un bilancio di ciò che da allora è cambiato nel suo approccio al problema della criminalità organizzata e a immaginare possibili prospettive future. Non c’è dubbio che quelle parole del Papa abbiano segnato una svolta fondamentale.

C’erano state già, da parte del cardinale Salvatore Pappalardo, una chiara denuncia e una dura presa di posizione nei confronti del fenomeno mafioso. Ma erano ancora dichiarazioni isolate, che "facevano notizia" per la loro novità, dopo un lungo periodo in cui la Chiesa, tranne alcune rare eccezioni, aveva sottovalutato il problema della criminalità organizzata.

Non solo essa peraltro: a chi ancora oggi continua a rinfacciarle l’affermazione del cardinale Ruffini - «la mafia non esiste» -, sarà utile ricordare che in quegli stessi anni, precisamente nel gennaio del 1955, il procuratore generale presso la Corte di Cassazione, Giuseppe Guido Loschiavo, in occasione della morte di Calogero Vizzini, ritenuto il vertice della gerarchia mafiosa, scriveva in una rivista giuridica: «Si è detto che la mafia disprezza polizia e magistratura: è una inesattezza.

La mafia ha sempre rispettato la magistratura, la Giustizia, e si è inchinata alle sue sentenze e non ha ostacolato l’opera del giudice. Nella persecuzione ai banditi e ai fuorilegge (...) ha affiancato addirittura le forze dell’ordine (...) Oggi si fa il nome di un autorevole successore nella carica tenuta da Don Calogero Vizzini in seno alla consorteria occulta. Possa la sua opera essere indirizzata sulla via del rispetto alle leggi dello Stato e del miglioramento sociale della collettività» (Cit. in P. Arlacchi, La mafia imprenditrice. L’etica mafiosa e lo spirito del capitalismo, Il Mulino, 1992, pp.59-60).

Parole che oggi appaiono incredibili, da parte di un altissimo magistrato, ancor più di quelle di un vescovo come Ruffini, che peraltro veniva da Mantova, e che danno l’idea di come sia cambiata in pochi decenni la percezione della natura e della pericolosità del fenomeno mafioso e di come le denunzie del cardinale Pappalardo, alla fine degli anni Settanta, fossero coraggiose.
Ma, dicevamo, è stato il discorso della Valle dei Templi ad aprire definitivamente la nuova stagione. Da allora le forti denunzie da parte dei pastori si sono moltiplicate, in innumerevoli lettere pastorali, omelie, convegni ecclesiali. E non solo per solidarietà con le istituzioni civili e in nome della legalità, ma prendendo sempre più chiaramente coscienza della natura essenzialmente anti-cristiana di "cosa nostra".

Significativo il fatto che padre Pino Puglisi, il parroco di Brancaccio ucciso il 15 settembre 1993 dalla mafia, sia stato beatificato riconoscendo che il suo martirio è avvenuto non per un generico impegno sociale, ma in odium fidei, in odio alla fede. È il Vangelo che i mafiosi avversano. Così, contrariamente a quanto ha detto qualcuno, la condanna senza appello e la scomunica nei loro confronti, da parte di papa Francesco, nella piana di Sibari, il 20 giugno 2014, sono state l’espressione di una ormai diffusa coscienza ecclesiale, che era importate confermare e ribadire, ma che già aveva dato ampia prova di sé. L’anniversario del discorso di Giovanni Paolo II non può essere però solo l’occasione per rallegrarsi del cammino fatto in questi venticinque anni. Esso è anche un richiamo a considerarne i limiti.

Oggi le mafie sono ben lontane dall’essere sconfitte. Anzi la loro pervasiva, nefasta influenza si è estesa sempre di più, a livello nazionale e mondiale. Per combatterla sempre più efficacemente non bastano, da parte della Chiesa, le denunzie. È necessario un profondo rinnovamento dello stile pastorale, che consenta al Vangelo di diffondersi al di là delle mura del tempio, sul territorio, in mezzo alla gente, negli uffici, nelle scuole. Bisogna definitivamente abbattere il dualismo ancora persistente tra una sfera profana, dove il mafioso esercita la sua azione prevaricatrice e corruttrice, in nome del dio della violenza, e una sfera sacra in cui può esibire una pretesa legittimità di 'buon cristiano', organizzando feste religiose e partecipando ai sacramenti.

Ma questa è una rivoluzione che ormai non passa più solo per i discorsi, ma per le coscienze dei singoli e delle comunità. Da essa dobbiamo attenderci, per il prossimo futuro, un nuova capacità della Chiesa di incidere sulla cultura, in questo come in tanti altri settori della vita sociale. E un lavoro capillare, di lungo temine, a cui pastori e popolo di Dio sono chiamati a collaborare. Perché il grido di Giovanni Paolo II, «Convertitevi, verrà il giudizio di Dio!», non resti - almeno in parte - ancora inascoltato.