Attualità

Una vittima. «Il perdono mi ha fatto guarire. Ma la giustizia faccia il suo corso»

Vincenzo R. Spagnolo venerdì 30 aprile 2021

Debora Bornazzini Rosi

«Spero che le persone arrestate a Parigi si assumano le proprie responsabilità. Che si rendano conto che, se per loro la vita in qualche modo è andata avanti, invece tante vittime sono ancora inchiodate a un evento che ha negato loro la possibilità di una vita normale... ». Debora Bornazzini Rosi è una signora dal sorriso aperto, con due bimbi per mano, appena usciti dalla materna.

Le notizie dalla Francia l’hanno riportata a quel tragico 1° dicembre 1978, quando suo padre Domenico, commerciante trentenne, venne ucciso per strada, in via Adige a Milano, insieme a due amici coetanei, il tappezziere Pier Antonio Magri e il macellaio Carlo Lombardi, da due estremisti vicini a Prima Linea, Maurizio Baldasserroni e Oscar Tagliaferri, condannati in contumacia e tuttora latitanti.

«Papà fu ucciso quando avevo 7 anni. La sua uccisione frantumò la mia vita, privandomi per sempre del suo amore... ». Di quell’esistenza, con coraggio, Debora ha saputo rimettere insieme i pezzi, in un percorso iniziato nel 2004, che l’ha portata a rinascere e a formare una famiglia.

Cosa provava, da ragazza, rispetto ai carnefici di suo padre?

Per anni sono stata imprigionata nel fermo immagine dell’omicidio. Ho provato disperazione, desiderio di vendetta. Mi sono nutrita di rabbia. Ho immaginato più volte di incontrare gli uccisori, pensando che avrebbero provato vergogna e pentimento e che io avrei negato loro ogni clemenza.

Un incontro mai avvenuto. Ma lei ha conosciuto altri appartenenti a Prima linea, vero?

Sì, dopo una presentazione di un libro conobbi M., che insieme ad altri aveva indicato gli uccisori di mio padre agli inquirenti. Mi invitò a cena a casa sua, andai con mio marito. Venne pure uno dei membri del commando che uccise Walter Tobagi: diceva che noi eravamo i figli delle vittime, mi guardava e si scusava, ancora e ancora. Sentivo la sua urgenza di chiedere perdono e la sua disperazione. In quegli anni ho incontrato ex terroristi, avvocati, magistrati, giornalisti, agenti di polizia, vittime, rappresentanti di associazioni, studiosi, docenti, sopravvissuti e studenti. E proprio parlando in una scuola, ho capito una cosa importante.

Quale?

C’era un ragazzino che aveva perso il padre nello tsunami delle Filippine. Ho compreso che il suo dolore era come il mio, a parte la causa. E che non dovevo raccontare a quei ragazzi di una morte, ma di una rinascita.

E cosa ha fatto?

Mio marito, medico, mi ha aiutato a curare le ferite dell’anima. Ho ripreso gli studi interrotti: il diploma, poi la facoltà di Giurisprudenza. E con l’università ho visitato un carcere, dove ho conosciuti detenuti come L. condannato a 30 anni per omicidio. Mentre raccontava la sua esistenza, ho capito che anche io dovevo darmi una seconda possibilità. Non dimenticando quanto accaduto e il ricordo di mio padre, ma scegliendo la vita e lasciandomi la morte alle spalle.

E cos’è successo poi?

L. si è laureato in carcere e deve scontare ancora una parte di pena. Io sto scrivendo la tesi. E cinque anni fa, ho scoperto di aspettare due gemelli, Antonio e Pietro, arrivati così, senza preavviso, nel momento in cui ho teso le braccia all’esistenza. La vita è stata generosa con me.

Nonostante ciò che ha passato?

Sì. Sono grata alla vita perché mi ha dato la forza di andare oltre, di costruire il mio futuro, giorno dopo giorno. Non senza fatica, intendiamoci, e non senza aver comunque sprecato buona parte della giovinezza a odiare, a chiedere vendetta, inchiodata a terra da un passato troppo pesante da dimenticare. Poi, per me è arrivato un miracolo: gli incontri, lo studio, la consapevolezza che l’odio non era una soluzione ma un ostacolo, che la soluzione passava per la via del perdono.

E lei ha perdonato? Perdono è una parola che va usata con cautela. Io non ho scusato i responsabili della morte di mio padre, ho solo messo in atto un processo che mi allontanasse per sempre da loro. Il perdono è un atto unilaterale che non nega il male subìto. Aiuta la guarigione della ferita, senza nascondere la cicatrice.

C’è chi dice che la giustizia, nel caso francese, arrivi tardi. Cosa ne pensa?

Ritengo che la giustizia debba sempre fare il suo corso. I ricercati arrestati in Francia sono donne e uomini che hanno liberamente scelto di fuggire dalle proprie responsabilità, consapevoli delle conseguenze. Scelta che non hanno potuto fare le vittime, che invece hanno lottato per superare la morte di padri, di madri, di figli. Spero che per loro scontare la pena sia una seconda chance per cambiare, se ancora non sono cambiati, per prendere atto di ciò che hanno fatto. Per capire che non è mai troppo tardi per perdonarsi e per essere perdonati.