Nove rifugiati palestinesi raccontano la Gaza che non c’è più

Nel documentario "Qui vit encore?" alle Giornate degli Autori il regista Nicolas Wadimoff raccoglie storie di dolore e resistenza di chi è riuscito a uscire dall'inferno della guerra
September 2, 2025
Nove rifugiati palestinesi raccontano la Gaza che non c’è più
. | Uno dei rifugiati palestinesi protagonisti del documentario "Qui vit encore?" del regista Nicolas Wadimoff
«Free Free Palestine», scandisce il pubblico in piedi nella Sala Perla del Casinò del Lido, occhi lucidi e il groppo in gola. Succede alla fine della proiezione ufficiale del documentario Qui vit encore?/Who is still alive?, presentato alle Giornate degli Autori alla Mostra del Cinema di Venezia. Due ore intensissime di testimonianze dirette di nove rifugiati palestinesi provenienti da Gaza, ripresi con sapiente delicatezza e profondità emotiva dal regista svizzero Nicolas Wadimoff. Persone comuni diventate testimoni di una tragedia collettiva, che raccontano in prima persona il dramma della guerra, della perdita e della fuga.
In sala, Wadimoff abbraccia i quattro rifugiati che sono riusciti ad ottenere il visto per venire a Venezia: tutti gli intervistati sono riusciti a uscire da Gaza prima della chiusura definitiva del valico di Rafah, nel maggio 2024. Il documentario è l’occasione per ascoltare le loro voci vive, fragili, potenti, che sfuggono alla narrazione astratta della guerra fatta di numeri, statistiche e geopolitica.
Il documentario, prodotto da Akka Film, ha una struttura sobria e teatrale: ogni rifugiato, su un grande palco nero, inizia a disegnare con pennarelli bianchi la propria casa su una mappa immaginaria di Gaza. Un gesto semplice, quasi infantile, che però sprigiona una forza dirompente. Raccontano cortili ombreggiati, giardini, fattorie, stanze affacciate sul mare, uffici, memorie. Tutto distrutto.
«Perché la casa è come una persona di famiglia, forse la più importante», dice la dottoressa Eman Shannan. È sopravvissuta due volte: prima al cancro, poi – come lei stessa afferma – al genocidio. Evacuata con la forza il 13 ottobre 2024, pochi giorni dopo l’attacco di Hamas del 7 ottobre, ha pensato prima di tutto alle sue pazienti oncologiche: ha scaricato su un computer tutte le schede cliniche delle donne seguite dalla sua ONG, per non lasciarle andare perse. «Poiché Gaza non c’è più, l’abbiamo ricostruita attraverso il ricordo della vita quotidiana», spiega Wadimoff ad Avvenire. E a ricordarci il senso profondo di tutto è Ghada Al Masri, 16 anni, in un messaggio audio agli spettatori: «Dietro ogni numero c’è una persona, una vita, un sogno, una voce».
Il regista illumina i volti dei suoi protagonisti con una luce caravaggesca, quasi sacra, che ne esalta la bellezza, la dignità e il dolore trattenuto. Non c’è retorica né vittimismo, ma una compostezza profonda che spiazza e commuove. Ogni testimonianza è una discesa personale agli inferi: da una vita quotidiana serena alla devastazione totale, dalla sicurezza familiare all’assenza di tutto.
Hana al Aiwa, prima donna imprenditrice a Gaza a fondare un’azienda tutta al femminile, oggi non ha più nulla. Haneen Harara, giornalista sul campo, ha perso 13 familiari in un singolo bombardamento: è fuggita per salvare i suoi tre figli, a cui insegna ogni giorno la dignità e la resistenza. L’imprenditore sessantenne Jawdat Khoudary si commuove nel raccontare la distruzione della sua fabbrica e della preziosa collezione artistica e archeologica che custodiva: «La pazienza è tutto quello che ci resta», dice con voce rotta.
Tra i protagonisti ci sono anche l’influencer Malak Khadra e l’artista Sdel Al Taweel, entrambi sopravvissuti fisicamente alle macerie, ma profondamente segnati nella psiche e nell’anima. Mahmoud Jouda è diventato scrittore: scrive per sua figlia Magda, per lasciarle un ricordo della Gaza che non c’è più. E il giovane musicista Feras Elshrafi, durante la fuga, ha portato con sé solo il suo qanun, un antico strumento a corde. Nell’ultima scena del documentario, viene raggiunto dagli altri protagonisti per intonare insieme uno struggente canto alla patria perduta.
Wadimoff ha visitato la Palestina per la prima volta nel 1988, durante la prima Intifada. Da allora, ha stretto legami profondi con molte persone, diverse delle quali oggi sono morte o disperse. «Questo film – racconta – è nato nel marzo 2024. Stavo facendo sopralluoghi per un progetto sull’UNRWA, l’agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati palestinesi. Volevo entrare a Gaza, ma non mi è stato permesso. Al Cairo ho ritrovato Jawdat, protagonista del mio precedente film The Apollo of Gaza, arrivato da poco. Era come un fantasma, con lo sguardo spento. Dopo un’ora di chiacchiere, ero raggelato. Mia figlia, presente con me, mi ha detto: “È uscito da un genocidio, non da una guerra”».
“Queste persone sono incredibili – aggiunge –. Hanno perso tutto: padri, madri, figli, fratelli. Eppure sono qui, davanti a noi, a darci una lezione di dignità. Quello che sta succedendo a Gaza è lo specchio di quello che accade nel mondo. Se perdiamo la nostra umanità per Gaza, la perdiamo ovunque. E la stiamo perdendo. Stiamo entrando in un nuovo paradigma: la legge del più forte, del più violento. È l’alba di un nuovo fascismo. Il popolo di Gaza è oggi l’ostaggio di questo processo, il laboratorio tragico di ciò che potrà accadere altrove».

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