Enrico Rava, alla ricerca del suono dell'anima

È la tromba per antonomasia: a 86 anni continua a collaborare con i grandi del jazze con i giovani, come i Fearless Five. Questa sera suona al Festival di Spoleto con Bollani per Baricco
July 8, 2025
Enrico Rava, alla ricerca del suono dell'anima
Foto di Roberto Cifarelli | Il grande trombettista Enrico Rava, 86 anni: questa sera sul palco del Festival di Spoleto con Stefano Bollani per lo spettacolo di Alessandro Baricco
«A Milano vengo poco, me ne sto qua, davanti al mare. Ho una casa all’Isola, lì dietro al “Blue Note”, ma sono scappato in Liguria, anche perché mi hanno fatto arrabbiare. Avevo una Mercedes che era la mia passione, ma siccome era un motore euro 5 ho dovuta darla via…». È il primo squillo pomeridiano di Enrico Rava, pronto per il prossimo appuntamento, il 9 luglio al Festival di Spoleto: Novecento: il duello, sul palco del Duomo Alessandro Baricco sarà accompagnato dalla sua tromba e dal pianoforte di Stefano Bollani. Rava, triestino di nascita, classe 1939, è un maestro assoluto del jazz. Oltre 100 dischi pubblicati, collaborazioni con tutti i giganti di questo mondo dove se si sbaglia è sempre da professionisti, dell’improvvisazione. Se Franco D’Andrea è “il pianoforte”, allora Rava, è per antonomasia “la tromba”, con tanto di laurea ad honorem, come D’Andrea (domani riceve il diploma accademico dal Conservatorio di Castelfranco Veneto), conferitagli dal prestigiosissimo Berklee college of music. E come ogni grande del jazz, da ragazzo, anche Rava ha avuto una folgorazione, che nel suo caso fu doppia: Miles Davis e Lester Young ascoltati in un concerto a Torino nel lontano 1956.
«Me lo ricordo come fosse ieri sera. Miles possedeva un carisma e un’aurea tutta intorno che anche quando gli altri musicisti facevano gli assoli tu guardavi solo lui, la sua luce e quella della sua tromba, un po’ come quando in Fronte del Porto fissi solo Marlon Brando anche nelle scene in cui sta zitto. Però prima di Miles, a 7 anni i miei idoli erano Louis Armstrong di cui avevo l’intera discografia e Bix Beiderbecke per il quale andavo pazzo, ritagliavo persino le sue foto. Bix era adorato dai musicisti della sua epoca, gli anni ’20, a cominciare da Paul Whiteman, che lo aveva voluto nella sua orchestra. Whiteman fu anche l’unico musicista presente al funeral di Bix e e l’unico articolo che pubblicato è stato quello della morte: l’alcol se lo è portato via a 28 anni». Memorie del giovane Rava, jazzofilo nostalgico ed espertissimo, fin dall’adolescenza, del genere Dixieland e New Orleans. «Quella musica da un lato ha deciso felicemente la mia vita, dall’altro ha fatto sì che a scuola fossi un disastro totale: io non facevo che ascoltare dischi tutto il giorno. Alle scuole medie c’era un altro amico appassionato quanto me di jazz, eravamo due carbonari che invece di seguire la lezione facevamo i quiz, tipo: chi suonava il piano nella formazione di Nick La Rocca del 1921? Oggi un po’ rimpiango di non aver seguito un percorso scolastico regolare, studiare aiuta ad essere immuni da situazioni in cui poi resti spiazzato per le poche conoscenze. Ad esempio, da autodidatta puro non ho mai imparato l’imboccatura della tromba. La mia imboccatura non è affatto quella giusta. Funziona, ma non è quella di chi ha studiato e me ne accorgo adesso che il muscolo che non ha imparato a fare le cose giuste dopo un po’ cede». Ma questa tecnica raviana regge ancora e va avanti dagli anni ‘50 quando, cito lo stesso Maestro, «essere un jazzista in Italia era come dire vorrei fare il cowboy». «O fare i cercatori di petrolio a Torino dove sono cresciuto anche come musicista – sorride – . Quando nel 1967 me ne sono andato di casa per raggiungere Gato Barbieri a New York, mio padre che voleva lavorassi nella sua azienda mi tolse la parola per un secolo, perché pensava che suonando la tromba al massimo sarei finito a vivere dentro a un fosso. Del resto lo scenario da noi era quello di un concerto importante all’anno. A Torino c’era un gruppo di dilettanti che chiamavamo quelli di “Kansas City”, bravi ma erano dei dopolavoristi. Quando ho iniziato, da noi c’erano tre trombe jazz in circolazione: Nunzio Rotondo, Sergio Fanni e il sottoscritto che poi è scappato in America».
Dieci anni di formazione e di confronto quotidiano con i maestri fondatori americani, per poi tornare in un’Italia finalmente più jazzofila. «Quando atterro a Roma scopro che il Partito Comunista a Botteghe Oscure aveva aperto un ufficio “Amici dell’Unita” in cui Loris Barbieri si occupava di contattare i migliori jazzisti e gli garantiva le serate alle Feste dell’Unità. A me fecero un contratto per 18 concerti e alla Festa dell’Unità nazionale di Firenze suonai davanti a 15mila persone… Incredibile. Il jazz era diventata una musica di moda e ai concerti l’intellighentia nostrana aveva deciso che contavi se c’eri, anche se poi vedevi che in platea parecchi di loro dormivano. Si ridestavano solo all’ultimo pezzo lanciandosi in applausi sperticati, per alcuni liberatori, urlando “bis!” con la speranza ovviamente che dal palco non accogliessimo la richiesta».. Tempi lontani anni luce dai fasti odierni del jazz italiano che vanta maestri di lungo corso ancora in pista e stuoli di talenti in rampa di lancio, come i Fearless Five con i quali Rava ha inciso l’ultimo disco omonimo. «I Fearless Five sono incredibili, a partire dal chitarrista Francesco Diodati, il trombonista Matteo Paggi e il contrabbassista Francesco Ponticelli. La batterista poi, Evita Polidoro, è strepitosa: ho suonato con i migliori batteristi del mondo, ma raramente ho trovato una batteria che mi dà i tempi come quella di Evita. Del resto, un rivista specializzata di New York ha appena pubblicato un articolo in cui si dice che dopo la scena americana quella più forte e importante è la nostra. Come si spiega questa metamorfosi? Tutto è cominciato negli anni ‘70 con le proteste dei giovani che chiedevano la musica gratis e i conseguenti scontri con la polizia ai megaconcerti rock. Santana fu l’ultimo ad esibirsi da noi, nel ’77, quando a Milano al suo concerto volarono le molotov. Così scattò il divieto e i saccoapelisti del rock si riversarono ai Festival gratuiti del jazz. Nel ’75 quando Umbria Jazz era ancora itinerante e non si teneva solo a Perugia, con il mio gruppo americano suonammo a Terni dove c’erano 30mila spettatori. Da lì in poi è cominciato un proliferare di Festival, non c’era un paesino che non avesse la sua bella rassegna, e così sono aumentati i jazzisti italiani che finalmente riuscivano a sbarcare il lunario» Nel frattempo, piccoli Rava sono cresciuti e diventati i grandi della tromba.
«Paolo Fresu, Giovanni Falzone, Fabrizio Bosso, Luca Aquino, Flavio Boltro… ormai sono dei trombettisti di fama mondiale», sottolinea il Maestro che è stato lo scopritore di Stefano Bollani. «L’ho lanciato, ma magari Stefano ci metteva un anno di più e sarebbe esploso con tutte le sue qualità di pianista stratosferico. E lo stesso discorso vale per Gianluca Petrella che è un trombonista geniale. A chi ha suonato con me ho solo accorciato la gavetta e così sono arrivati in Serie A con un po’ di anticipo sugli altri musicisti». Sostiene Fresu: «La tromba è la mia voce, perciò non canto», e Rava ha fatto lo stesso nel suo lungo percorso, mai accennata una canzone. «Per cantare bisogna avere delle doti, io come Paolo non ce l’ho. Chet Baker invecchiando, sì fa per dire perché è morto a 59 anni, anche con la voce rovinata cantava con quel filo di voce che arrivava dritto al cuore». Al cuore e alle orecchie del Maestro da un po’ arrivano anche le voci delle star del pop, come Michael Jackson. «I primi anni a New York ero un “talebano”, tutto quello che non era jazz non mi interessava, perciò sono arrivato ad ascoltare altro con 20-30 anni di ritardo. Mia moglie Lidia in macchina fa la dj e così durante i nostri viaggi ho scoperto la bellezza della musica di Jackson, il rock dei Rolling Stones, degli Yes e oggi ascolto spesso con piacere i Led Zeppelin che trovo dei musicisti pazzeschi. Degli artisti italiani ritengo che Lucio Dalla sia stato il più geniale. Vasco Rossi è un fenomeno interessantissimo con cui suonerei volentieri qualcosa , mi colpisce che da sempre si fa accompagnare da band di musicisti eccezionali. Paolo Conte? Me lo ricordo quando suonava il vibrafono. La base è da jazzista ma io trovo che Paolo sia più bravo come cantautore, ha scritto canzoni importanti che rimarranno». Resta anche la musica di Wayne Shorter che per Rava era «il più grande jazzista vivente», fino a quando due anni fa non se ne è andato, per sempre.
«L’ultimo grande oggi purtroppo è un “non suonante”, Sonny Rollins: lui con John Coltrane e Joe Henderson, con cui feci un tour memorabile formano la mia “trilogia del sax”. Ma sopra di loro c’è sempre Lester Young, lui è il padre di tutti». E con Lester Young torniamo a quel concerto iniziatico del ’56 in cui il 17enne Rava scoprì la magia della tromba di Miles Davis e ne seguì la scia. «Oggi so che i più grandi, come Miles, sono tali perché riescono sempre ad ottenere una connessione tra il suono e l’anima. Io ho un mio suono e tutto ciò che suoniamo viene da dentro, ma non sappiamo come e perché. Questo mistero Marcel Proust nella Recherche lo aveva trovato nella suonata per violino e pianoforte del signor Vinteuil. Io non so che cosa sia l’anima, ma ringrazio l’inventore dei dischi, vinili, cd o mezzi digitali che siano, perché lì dentro rimarrà impresso in eterno il segno del nostro suono. Altrimenti, tutto andrebbe perso. E allora le vite dei musicisti non avrebbero avuto alcun senso».​

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