L’eterna (im)perfezione dell’archivio
Le IA danno l’impressione che operino in tempo reale, ma in realtà lavorano su raccolte di dati già chiuse, al passato. Invece ogni incontro con il reale è sempre una piccola invenzione

Anticipiamo qui una parte dell’intervento di Ruggero Eugeni, attuale direttore del dipartimento di Scienze della comunicazione e dello spettacolo in Cattolica, presente in “… e quanto più sapore possibile”. Comunicazione, media, industria culturale (curatori Piermarco Aroldi, Giovanna Mascheroni, Francesca Pasquali, Barbara Scifo; Vita e Pensiero, pagine 538, euro 35,00, in libreria da domani). Il volume riunisce i saggi di una sessantina di autrici e autori legati a Fausto Colombo, il sociologo dell’Università Cattolica recentemente scomparso da un rapporto di amicizia e collaborazione.
«Come si addice a un secolo che ha conosciuto due grandi catastrofi belliche e vive nel terrore di un prossimo, irreversibile declino, la nostra era sembra dominata da un’ossessione memoriale». Ma il saggio che si apre con queste parole non parla propriamente di memoria, né della sua ossessione, quanto piuttosto delle forme che quella ossessione stava assumendo: nel suo primo libro, Gli archivi imperfetti, Fausto Colombo costruisce una riflessione sulle inscrizioni e in particolare sulle relazioni tra registrazioni (ancora elettriche, all’epoca) e archiviazioni (già in buona parte digitali). L’archivio informatico appare una costruzione strana: è di per sé immateriale, ma deve predisporre percorsi di ricerca al suo interno; è di per sé amodale, ma deve accogliere registrazioni di tutti i tipi, comprese (anzi: soprattutto) le immagini. Dove reperire il modello archeologico di un simile archivio? Colombo lo individua nella mnemotecnica classica, dunque nella dottrina dei loci e nei teatri della memoria.
Tuttavia, all’interno della storia della mnemotecnica, l’autore individua due punti di frattura tra sistemi classici e moderni: entrambi si possono cogliere nella figura di Giordano Bruno. Anzitutto, il teatro-archivio non è più una rappresentazione convenzionale del mondo, ma ne diviene una fedele e completa trascrizione: «la pretesa [di Bruno] di individuare connessioni oggettive tra locus e imago svela [il progetto] di creare un sistema di memoria speculare rispetto al sistema dell’universo, in cui quest’ultimo può trovare il suo degno riflesso o addirittura la sua unica interpretazione». Il secondo punto di discontinuità tra età classica e moderna riguarda la relazione tra memoria e sapere: l’architetto dei sistemi memoriali moderni non coincide più con il ricercatore-viaggiatore che ne esplora le articolazioni e i meandri, e il teatro si trasforma in labirinto. L’archivio informatico contemporaneo riprende l’apparato concettuale e l’immaginario mnemotecnico post-bruniano, ne fa l’essenza dell’ossessione memoriale contemporanea, ma al tempo stesso fa com-piere a questo sistema un’ulteriore, decisiva torsione: Colombo lo definisce weberianamente come la produzione di un «disincanto», ma potremmo anche parlare di una “trasformazione del mondo in immagine memoriale”: se Bruno ha sognato di scoprire in un sistema di memoria l’immagine del mondo, l’informatizzazione globale della conoscenza tende a costruire un mondo a immagine di un sistema mnemonico completo e assoluto; un mondo che è appunto labirintico, perché la sua percorribilità è guidata da norme miopi, che non contemplano al proprio interno una visione globale, ma solo il mito borgesiano del viaggio infinito.
Questo punto di partenza è anche la chiave per leggere una serie di fenomeni che a loro volta rafforzano il quadro di insieme. Le immagini (in particolare quelle cine-fotografiche ed elettriche) non sono forse “ricordi materializzati”, destinati ad alimentare e al tempo stesso ad asseverare l’immenso magazzino degli archivi digitali e a renderlo un archivio del tempo? In questa chiave, l’immagine generata dalla computer grafica non sarebbe altro che la produzione di ricordi artificiali via via sempre più credibili: anche se Colombo non lo cita, nel 1983 era uscito Blade Runner, un film nel quale la relazione tra fotografia e false memorie impiantate nei replicanti è trasparente. E ancora: la stessa misura del tempo che domina il mondo non è forse sempre di più quella del clock ai cristalli di quarzo delle macchine informatiche e telematiche – ossia di un nuovo hardware temporale capace non più di misurare quanto piuttosto di produrre le durate (di produrre cioè un “tempo astratto”) e imporle ai software e ai wetware che si misurano con esso –? Alle immagini senza referente corrisponde dunque una misura del tempo senza durata “oggettiva”, nuovo tassello di un archivio che, piuttosto che recuperare, inventa le proprie componenti (o, nel recuperarle, le reinventa più o meno radicalmente). In questa condizione, lo stesso oblio scompare davanti all’ondata della furia conservatrice di una tecnologia che vuole farsi Storia (ma una Storia senza angeli fastidiosi che svolazzino sulle proprie macerie, in quanto Storia senza macerie, composta da costruzioni per sempre intatte). E il ruolo dell’uomo si fa duplice: per un verso (e in una direzione che oggi diremmo post-umana) esso diviene marginale, ex-centrico rispetto ai processi di una “corteccia cerebrale esteriorizzata” in grado di agire senza e meglio di quella biologica; per altro verso, i soggetti sociali vengono messi in grado di accumulare un proprio capitale archivistico privato grazie all’accumulo frammentario di quelli che potremmo chiamare con il senno di poi “user generated memories”. Ma la differenza di scala non cambia la sostanza: tanto a livello collettivo quanto a livello individuale o familiare, siamo chiamati ad abitare mondi memoriali artificiali, e a conferire loro un senso identitario che essi in sé non possiedono [...].
Oggi più che mai aver chiaro che il mondo che vive e che viene elaborato nei data cubes che costituiscono gli attuali archivi imperfetti è un mondo inevitabilmente e costantemente al passato. Gli archivi imperfetti sono in realtà perfetti, nel senso etimologico del termine di qualcosa di già concluso rispetto agli sviluppi del reale. Il fatto che tali intelligenze sembrino operare nel tempo reale dipende dalla velocità con cui i microprocessori e le schede grafiche aggiornano la cattura e la visualizzazione dei dati; ma ogni stato visualizzato si riferisce a una porzione di realtà inevitabilmente trascorsa e finita rispetto all’ora della visualizzazione. Certo, compiere scelte e svolgere ragionamenti sulla base dei ricordi è normale; ma può anche servire a ridurre o evitare quel margine di rischio e di scommessa che rende ogni attimo di incontro con il reale la scena di una piccola invenzione.
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