lunedì 30 gennaio 2012
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La forza incoercibile della vita, la sua passione che batte in un cuore squarciato dal male del mondo e dal dolore personale. Elie Wiesel, il premio Nobel per la letteratura (correva l’anno 1986), racconta il suo ritorno nel mondo dei vivi dopo un’operazione a cuore aperto (questo il titolo del suo ultimo racconto, appena uscito in Francia, Coeur ouvert, Flammarion) che il 16 giugno dello scorso anno l’ha messo davanti, in maniera indefettibile, alla prospettiva della sua fine terrena. Da qui sono scaturite queste pagine di profonde riflessioni, incursioni teologiche, verità svelate.Come quella che l’autore dell’indimenticato racconto La notte (Giuntina) offre all’inizio del volumetto: Wiesel confessa di aver desiderato e voluto espressamente l’eutanasia, chiesta con insistenza alla moglie Marion. La quale però non diede corso alla domanda del marito. Scelta di vita e di speranza di cui lo scrittore ebreo ora ringrazia profondamente la donna cui è legato. Scrive: «A metà gennaio 2011 ero in Florida con mia moglie. Mi sono ammalato: i medici mi hanno diagnosticato una doppia pneumonia e imposto una settimana di ricovero. Ma dopo quattro giorni la mia situazione sembrava peggiorare. Ho domandato a Marion di fare non importava cosa, anche l’impossibile, per mettervi fine. Ella è riuscita a convincere i medici spiegando che rischiavo la depressione e che bisognava assolutamente trovare il modo di ricoverarmi in hotel». Già solo il cambiamento di sistemazione nella degenza permette allo scrittore di superare lo scoglio della depressione e del desiderio di "farla finita".Ma è l’intreccio tra la situazione personale del Wiesel malato di cuore (condizione scoperta improvvisamente l’estate scorsa e che ha necessitato di un intervento chirurgico d’urgenza a New York) e quella del Wiesel sopravvissuto ad Auschwitz ad avvincere in queste smilzo ma altrettanto eloquente libro. Perché quanto visto nei lager nazisti e quanto sperimentato nell’improvvisa ipotesi di abbandonare i propri cari per mano medica, entrambe le situazione hanno posto Wiesel di fronte a Dio con una domanda diretta: «Perché? Perché questa malattia? Questi dolori? Per che cosa li ho meritati? […] In verità, per l’ebreo che io sono, Auschwitz rappresenta una tragedia umana ma anche - e soprattutto - uno scandalo teologico. Per me è un fatto innegabile: è impossibile accettare Auschwitz con Dio né senza Dio. Ma allora come comprendere il Suo silenzio?».E se è nota la risposta del Wiesel narratore ne La notte rispetto all’"impossibile" domanda («Dov’è Dio [ad Auschwitz]? Eccolo là appeso ad una forca», riferito ad un bimbo impiccato dai nazisti), anche il Wiesel post-operatorio resta un credente purificato dalla prova: «Io ammetto di essermi messo contro il Signore, ma non l’ho mai rinnegato. Rivendico il grido di Geremia nelle "Lamentazioni" quando evoca la distruzione del primo Tempio di Gerusalemme: "Tu hai ucciso i tuoi figli senza pietà! Tu hai assassinato il tuo popolo senza compassione!". Commenta il Nobel: "Cosa? Dio un assassino? Certo, tra noi sopravvissuti, alcuni hanno protestato contro il silenzio divino! Ma nessuno ha avuto l’audacia di chiamare Dio "assassino"!».Ancora una volta però Wiesel riesce, con un colpo d’ala narrativo, a sbrogliare la matassa di un coacervo di posizioni che rappresentano lo scandalo religioso per eccellenza, il dolore umano. È l’innocenza di suo nipote a proporgli (e a donare a noi lettori) la chiave interpretativa risolutiva, che costituisce anche una sorta di grande ponte tra l’esperienza ebraica dell’autore e quella universale di ogni uomo, credente o mano (naturalmente, i cristiani potrebbero porsi in prima fila nel condividerlo). Elijah, dunque, il nipote prediletto del vecchio Elie, si avvicina al nonno: «Nonno, tu sai che io ti amo; e io so quanto tu stai soffrendo. Dimmi: se io ti amo di più, tu soffrirai meno?». E la conclusione di Wiesel sembra una vera dichiarazione teologica: «In quel momento, ne sono convinto, Dio contempla la Sua creazione sorridendo».
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