sabato 10 ottobre 2015
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La collettivizzazione forzata delle campagne voluta da Stalin all’inizio degli anni ’30 fu la pagina più nera del comunismo sovietico: causò milioni di morti ed è ancora oggi alla radice del risentimento degli ucraini nei confronti di Mosca. Un’immane tragedia della quale l’opinione pubblica internazionale, anche in Occidente, fu all’oscuro fino a non molto tempo fa, anche grazie alla colpevole complicità di intellettuali come Edward Carr, John Kenneth Galbraith, Simone de Beauvoir, William Duranty. Persino Aleksandr Solženicyn, grande accusatore degli orrori del regime staliniano, negò che gli ucraini fossero stati vittime di un genocidio. Il tragico capitolo della fame e della carestia (“Holodomor”) che portò allo sterminio della popolazione contadina in Ucraina è stato quasi ignorato dagli storici fino al 1986, quando l’inglese Robert Conquest riuscì finalmente a dare alle stampe il suo epocale Harvest of sorrow (Raccolto di dolore). Morto il 3 agosto scorso all’età di 98 anni, Conquest è stato il primo storico occidentale a svelare nel dettaglio il dramma della carestia orchestrata da Stalin, con la morte di milioni di contadini, e a definirla un atto di genocidio. Ma l’opposizione della Russia ha finora impedito alle Nazioni Unite di riconoscerlo ufficialmente come tale, mentre gli storici continuano a dividersi sulle cause scatenanti di quella carestia. Un contributo fondamentale al dibattito storiografico arriva adesso dal lavoro dello storico Ettore Cinnella, considerato uno dei massimi esperti italiani di storia russa, che ha recentemente dato alle stampe il libro Ucraina: il genocidio dimenticato 1932-1933 (Della Porta, pagine 304, euro 18,00). Approfondendo la documentazione emersa dopo il crollo dell’Urss nell’Archivio centrale di Mosca, Cinnella è stato in grado di ricostruire quei drammatici avvenimenti e di far emergere la verità sul più terribile dei crimini di Stalin. Perché la tragedia che si consumò in Ucraina oltre ottant’anni fa può essere definita genocidio? «C’è ormai un consenso abbastanza vasto sul fatto che fu un genocidio sociale, cioè un tentativo di sterminare buona parte del mondo contadino sovietico, quindi anche i russi. Ma io ritengo che ci fu anche un altro tipo di genocidio, ovvero il tentativo di distruggere il carattere nazionale del popolo ucraino. Si vollero punire i contadini, dar loro una lezione memorabile per costringerli a riconoscere la collettivizzazione delle terre che li rendeva di fatto servi della gleba. Quando questi si ribellarono, si tentò anche di violentarli dal punto di vista della loro identità, attraverso un attacco deliberato alla loro Chiesa e alla loro religione. Mi sono soffermato molto sull’aspetto delle persecuzioni antireligiose, della sconsacrazione e della distruzione delle chiese, la lotta allo scampanio che rappresentava l’identità dei villaggi. Il mondo contadino ucraino fu il bersaglio principale, ma non l’unico: fu attaccata anche l’intellighenzia del Paese col chiaro intento di cancellare la sua memoria storica, soprattutto i maestri di scuola e la Chiesa autocefala che era allora indipendente da Mosca. Furono poi colpiti anche i comunisti ucraini che sognavano una via ucraina al socialismo cercando uno sviluppo autonomo da Mosca. Mettendo insieme tutti questi tasselli, considerando che ci fu la volontà deliberata di ridimensionare e reprimere questo popolo, ritengo che sia lecito parlare di genocidio». Perché è stato a lungo oggetto di una vera e propria congiura del silenzio? «Perché fu un crimine gigantesco e inaudito, che bisognava nascondere a tutti i costi. Stalin e lo stato sovietico fecero di tutto, riuscendoci, per silenziare tutto. Cosa si sarebbe detto se si fosse saputo che Mosca faceva morire di fame deliberatamente milioni e milioni di contadini? Il quadro generale e anche alcuni dettagli erano abbastanza noti, ma per ragioni diplomatiche si preferì tacere per mantenere buoni rapporti con l’Urss o per altri motivi. Tutta l’opinione pubblica internazionale di sinistra che era infatuata dell’Urss scelse di tacere e dopo la guerra fu anche peggio, perché Stalin era uno dei grandi vincitori del secondo conflitto mondiale. Il silenzio durò a lungo, fino a Gorbaciov, perché anche Chrušcëv tra i crimini di Stalin si limitò a denunciare le purghe all’interno del partito comunista. Se si fosse saputo che i contadini sovietici erano stati lasciati morire di fame, il mito dell’Urss sarebbe crollato miseramente». Ancora oggi i russi faticano a riconoscere appieno quello che accadde. Perché addirittura un personaggio come Solženicyn negò le rivendicazioni degli ucraini? «È una conseguenza della grande forza dell’imperialismo culturale russo, non solo quello geopolitico, ma anche quello della tradizione e delle leggende russe. Non a caso si continua a credere che Kiev sia la culla della civiltà russa mentre invece fu la culla della civiltà degli slavi orientali. La storia della Russia è tutta avvolta nella leggenda. L’idea che la civiltà sia trasmigrata da Kiev a Mosca, che si è poi ripresa Kiev, è priva di fondamento. Da sempre in Russia si costruiscono leggende per giustificare un certo atteggiamento a fini di dominio. L’imperialismo culturale russo ha avuto tanti seguaci, e Solženicyn era uno di quelli». Qual è oggi la percezione del popolo ucraino nei confronti dell’“Holodomor”? «È un tragico simbolo dell’identità nazionale, un processo faticoso e complesso che è poi sfociato in modo grandioso alla fine dello stato sovietico con la scoperta di questa tragedia». Il rancore degli ucraini nei confronti di Mosca è sopravvissuto alla fine del comunismo? «Sì, il risentimento nei confronti di Mosca non è mai svanito. Esiste una mole imponente di storie, memorie e ricordi di villaggi scomparsi che spiega bene perché gli ucraini non possono più stare con i russi. Potrebbero riconciliarsi solo se i russi ammettessero di avere sbagliato e di essere stati anche loro vittime di un’immane tragedia e di un regime mostruoso, e cercassero quindi il modo di andare avanti insieme. Ma un unico Stato non è più concepibile perché sono due mondi e due realtà diverse, che potranno collaborare soltanto se entrambi lo vorranno».
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