martedì 8 agosto 2023
Esce il primo volume della monumentale edizione in 12 tomi che Frazer pubblicò nel 1915. Il Novecento ha subito il fascino dell’opera, nonostante le critiche portate dagli etnologi
James Frazer (1854-1941)

James Frazer (1854-1941) - WikiCommons

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«Chi non conosce il quadro il Ramo d’oro di William Turner? La scena, soffusa dal bagliore dorato dell’immaginazione con cui la mente divina del pittore intrise e trasfigurò il più bel paesaggio naturale, è una visione onirica del laghetto boschivo di Nemi, “lo specchio di Diana”, come lo chiamavano gli antichi. Nessuno che abbia visto quell’acqua pacata lambire una verde conca dei Colli Albani, potrà mai dimenticarlo ». Così comincia un viaggio straordinario nella vita religiosa dell’umanità, proponendo una storia sotto forma di enigma che si dipana lungo tutto Il ramo d’oro di sir James George Frazer. Pubblicato per la prima volta nel 1890 in due grossi volumi, all’opera l’antropologo, lavoratore solitario e indefesso enciclopedista, non ha mai smesso di contribuire. Col passare degli anni l’ha arricchita sempre di nuovi materiali, che riportano tradizioni e usi da tutte le contrade del mondo. Dalla versione iniziale proviene una seconda edizione in tre tomi, nel 1900, e l’ultima, data alle stampe nel 1915, costituita da ben 12 volumi! Solo nel 1922 lo stesso erudito realizzò una versione ridotta, che è quella fino a oggi in circolazione nel Belpaese. Ora, grazie alla casa editrice Luni di Matteo Luteriani, il lettore italiano dispone del primo tomo del volume iniziale, dedicato a L’arte magica e l’evoluzione dei re, della traduzione integrale di Il ramo d’oro. Uno studio sulla magia e la religione (pagine 496, euro 38,00). La versione completa in italiano dei dodici volumi che compongono l’immensa (non solo per dimensioni) opera, realizzata da Fabrizio Bagatti, vedrà progressivamente la luce nel corso dei prossimi anni. Frazer comincia con la narrazione di un curioso mito che risale alla Roma arcaica. Sulle rive del lago di Nemi, nei pressi di Ariccia, viveva il “Re del Bosco”, sacerdote devoto alla dea Diana. Egli, sempre desto, si aggirava con continua circospezione e apprensione in attesa che qualcuno lo sfidasse in singolar tenzone per assumere il sacerdozio al suo posto. Il pretendente non poteva che essere uno schiavo fuggiasco, che fosse prima riuscito però a strappare e rubare un ramo dall’albero sacro cresciuto nelle vicinanze del santuario. «Il ramo fatale – scrive Frazer – era quel ramo d’oro che, per ordine della Sibilla, Enea spezzò prima di intraprendere il pericoloso viaggio verso il mondo dei morti». Dotato di un notevole talento come scrittore e attento raccoglitore di miti sulla storia religiosa della classicità e delle culture che un tempo si sarebbero definite, erroneamente, primitive, Frazer è uno degli antropologi più letti e influenti al di fuori della disciplina. Tuttavia nessun antropologo rivendicherebbe un’eredità che col tempo è diventata discutibile. Nonostante le prese di distanza degli etnologi, ampia parte della cultura del Novecento ha attinto a piene mani a questa mirabolante raccolta di miti, riti, tradizioni anche orali che altrimenti sarebbero andate persi col passare delle generazioni. Ludwig Wittgenstein, D. H. Lawrence, Sigmund Freud, Ezra Pound, James Joyce, Thomas S. Eliot, con il suo lavoro, non hanno esitato a fare i conti, per criticarlo, svilupparlo o trarne ispirazione. Proprio per questo le facili critiche che accusano Frazer di essere un frusto ripetitore dei più diffusi tic del positivismo tardo-ottocentesco da rinchiudere in un cassetto cadono nel vuoto. E ciò non perché l’erudito inglese non fosse intriso della cultura dominante dell’epoca che vedeva nella magia ancestrale solo il passo iniziale che avrebbe poi condotto progressivamente a un’idea più compiuta di religione, da abbandonare poi a seguito delle progressive sorti dell’umanità. Se questa prospettiva evoluzionista e carica dei pregiudizi d’epoca positivista risulta senz’altro datata, l’accusa di ottuso positivismo non coglie nel segno, come si evince dalle dichiarazioni dello stesso Frazer rintracciabili da chi non si affida esclusivamente alla versione abregé di Il ramo d’oro. L’autore ricorda «l’estrema complessità delle cause che hanno formato il tessuto della società umana». E ammonisce: «Si dovrebbe stare in guardia da un sottile pericolo accessorio a tutte le scienze: la tendenza a semplificare indebitamente l’infinita varietà dei fenomeni ». Per evitare di cadere in semplificazioni, comunque inevitabili, «dobbiamo sforzarci di ampliare le nostre vedute tenendo conto di un’ampia gamma di fatti e possibilità; e quando lo avremo fatto al massimo delle nostre risorse, dovremo comunque ricordarci che, per la natura stessa delle cose, le nostre idee sono inferiori alla realtà in maniera incommensurabile». La passione, la cura e la pazienza di Frazer hanno reso disponibile e reperibile una mole enorme di documentazione antropologica, di miti, riti, simboli, antichi e a lui contemporanei, che sono il patrimonio spirituale dell’homo religiosus. L’antropologo britannico prende le mosse dal rito dell’uccisione del re e sacerdote nel boschetto di Nemi per interrogarsi sul significato di questo mito, a lungo tramandato nella Roma antica. Frazer si chiede perché il re debba essere ucciso quando le sue forze vengono meno e perché il ramo prezioso debba essere strappato dall’albero prima dell’assassinio rituale? Le due domande costituiscono la trama di una storia che percorre tutto il monumentale Il ramo d’oro, per elaborare poi, nei successivi volumi una teoria del miti e del rito del “Dio morente”, in cui rientra, nelle considerazioni dello studioso anche la figura del Cristo e la sua Passione. I simboli del potere, i tabù indagati, i riti del capro espiatorio, quelli agrari e molti dei sentieri dischiusi dai miti riportati ed esplorati da Frazer continuano a parlare anche oggi. Fatto strame dell’impostazione culturale positivista, per il lettore Il ramo d’oro rimarrà sempre uno scrigno da cui intraprendere uno straordinario viaggio attraverso l’anima religiosa dei popoli, per non dimenticare quanto è più proprio dell’uomo, anche contro le intenzioni originarie dell’autore.

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