
Ansa
Vero che su dieci italiani davanti a un programma tv nella serata di venerdì ben sette stavano guardando Sanremo. Verissimo che è il record storico per questo tipo di dato (lo share). Ma in numeri assoluti ricordiamo sempre che si tratta di 12,3 milioni di connazionali – comunque un’enormità, televisivamente parlando. E su una popolazione che sfiora i 59 la prima osservazione da fare è che nella settimana del Festival ci sono stati più di 46 milioni di italiani che hanno fatto altro, probabilmente ignari di favoriti e ospiti, di chi siano Lucio Corsi o i Coma Cose, e persino del nome del presentatore.
Non è per relativizzare il successo indiscutibile dello spettacolo della tv italiana che più di ogni altro accomuna il Paese come solo Sinner ora sa fare (quando le sue partite sono in “chiaro”). Anzi. Quello che è andato in scena e in onda riguarda i quattro quinti di italiani “non sanremesi” tanto quanto il quinto di più o meno stretta osservanza. Perché chi allestisce un programma sul quale il servizio pubblico si gioca la sua sussistenza, con un fatturato pubblicitario di 67 milioni (record anche qui), sa molto bene di non potersi permettere passi falsi. Cioè: il tipo di racconto televisivo che esce dal teatro Ariston dev’essere attrattivo, unificante, accogliente, rappresentativo, popolare nel senso più largo del termine. Uno specchio che ci abbellisce, certo, ma più ancora ci restituisce un’immagine di come siamo.
Assai più di un sondaggio, un’edizione di successo del Festival – e quella del 2025 lo è stata di sicuro – inevitabilmente diventa il sismografo del nostro modo di vedere la realtà in questo punto della storia patria. Non una fotografia nitida fin nei dettagli, d’accordo, piuttosto un ritratto impressionistico. E quello emerso lungo una settimana di spettacolo canoro è certamente interessante, al di là della persino ovvia conferma del fatto che amiamo la musica, la bellezza, il buonumore, l’eleganza, la creatività, la memoria (anche remota), tutti temi di discussione da divano tra generazioni che ormai praticamente solo nei giorni festivalieri si ritrovano davanti allo stesso spettacolo condiviso.
E allora è proprio nel fatto che questo Festival 2025 non ha esondato dalla bella grafia e dalla buona educazione che va cercato qualcosa di vero per tutti i cinque quinti degli italiani: nelle interminabili ma tranquille e persino monocordi ore di canzoni e siparietti, di scale discese con impaccio e di (troppa) pubblicità, hanno (abbiamo) finalmente potuto ravvisarsi in un clima garbato e rispettoso, come quello nel quale tutti vorremmo vivere, risparmiandoci una buona volta la quotidiana razione di lacerazioni viscerali e di odio reciproco che ammorba la gran parte del discorso pubblico. Quello sanremese è un racconto che mostra come non abbiamo bisogno di polemiche, eccessi verbali, provocazioni fini a sé stesse (quante ce ne hanno inutilmente propinate le ultime edizioni del Festival...). Non ne possiamo più, e chiediamo la restaurazione buona della normalità, uno stato d’animo che vive anche di leggerezza.
Il Festival è entrato nelle nostre case chiedendo permesso e rassicurandoci sul fatto che si può stare insieme tutti senza bisogno di forzature, colpi bassi, parole grosse e polveroni senza sostanza. Abbiamo persino fatto a meno degli ormai stucchevoli monologhi recitati dal vip di turno come la poesia davanti alla maestra. Ce n’è mai stato bisogno? Alle scelte di Carlo Conti (alcune coraggiose, come Bianca Balti che non dissimula la sua malattia, o il Teatro Patologico) è stata imputata la noiosità di una macchina gradevole ma insipida, ma è solo la nostalgia di qualche cronista a corto di idee per le polemichette degli anni passati. A noi pare invece di respirare l’aria di buon senso e rispetto, che non è né di sinistra né di destra, e del quale sentiamo un immenso bisogno. Se ne ricordi tutta la tivù, e non solo quella.