mercoledì 23 gennaio 2019
I colpi assassini delle Brigate Rosse e di Prima Linea di fine gennaio 1979 segnarono un punto di non ritorno per le stesse istanze pseudo rivoluzionarie di matrice comunista
Guido Rossa

Guido Rossa

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Il 29 gennaio a Pescara giornata in memoria del giudice Emilio Alessandrini. Dopo la santa messa nella cattedrale di San Cetteo, al teatro Massimo, alle ore 11, la proiezione del filmato Emilio vive di Stefano Falco. A seguire il concerto della Banda della Polizia di Stato. Ricorderanno Alessandrini i suoi compagni di classe al liceo “Gabriele d’Annunzio” tra cui, oltre a Di Francesco, Laura Bertolé, avvocato generale dello Stato presso la Corte d’Appello di Milano, e Vito Zincani, sostituto procuratore della Corte di Appello di Bologna.

Nella livida alba del 24 gennaio 1979, a Genova, le Brigate Rosse uccidevano Guido Rossa, 44 anni, operaio all’Italsider e sindacalista della Cgil. Il 27 gennaio un corteo di 250 mila persone rese omaggio all’uomo che aveva osato sfidare i terroristi. Il presidente della Repubblica Sandro Pertini appuntò sul petto di Rossa la Medaglia d’Oro al Valor Civile.

Ma perché Rossa era stato ucciso? Il 25 ottobre 1978 un suo collega, Francesco Berardi, era stato trovato mentre sistemava alcuni volantini delle Brigate Rosse: «Sviluppare la lotta armata nel cuore della produzione costruendo, a partire dalla fabbrica, il partito comunista combattente». Tra i colleghi c’era stata indecisione sul da farsi, poi si era deciso di denunciare il fatto. Al momento della firma, però, Rossa rimase solo. Firmando la denuncia, firmò la sua condanna a morte. Il 30 ottobre 1978 al processo presso la Corte d’Assise, confermò le sue dichiarazioni. Consapevole delle conseguenze del suo gesto, rifiutò sia la pistola sia la scorta offerta dai colleghi. C’era aria pesante in quegli anni a Genova. Qui era avvenuto il primo rapimento di lunga durata (Mario Sossi, 1974), il primo ferimento di giornalista (Vittorio Bruno, 1977) e il primo assassinio (Francesco Coco, 1976).

La sera del 17 novembre 1977 venne colpito Carlo Castellano, direttore pianificazione dell’Ansaldo, cattolico e iscritto al Pci. Come ha fatto notare Paolo Andruccioli nel suo Il testimone. Guido Rossa, omicidio di un sindacalista: «Il suo ferimento è stato poco sottolineato in quegli anni zeppi di notizie, ma rappresenta una svolta nel percorso terroristico. È l’inizio dell’attacco al revisionismo del Partito comunista».

E in questo attacco le Br uccidono l’operaio Rossa. Che, però, doveva essere “solo” gambizzato. Il compito spettava a Vincenzo Guagliardo, alla sua prima azione, che, in effetti, sparò alle gambe del sindacalista. In un secondo momento, però, un altro e più esperto brigatista, Riccardo Dura, tornò indietro per colpire al cuore l’operaio. Inizialmente, Rossa doveva essere oggetto di un atto dimostrativo: una gogna, con cartello e l’incatenamento ai cancelli della fabbrica. Ma l’opzione era stata ritenuta troppo macchinosa. E poi, quell’operaio, per il suo “tradimento di classe”, meritava di più. Ecco, allora, la scelta della gambizzazione. Ma perché poi ucciderlo? Un volantino parlò di «un’ottusa reazione» da parte di Rossa. Peccato però che ci fu solo «un atteggiamento difensivo» da parte del sindacalista. E, allora, Dura agì in preda a uno scatto d’ira o il suo gesto era previsto? Come fa notare Sergio Flamigni, «Dura è un capo, il braccio destro di Moretti».

A quarant’anni da quella tragica mattina la domanda rimane. Certo è che con la morte di Rossa cascherà quell’atteggiamento di mal celata simpatia verso le Brigate Rosse, riassunto nel triste slogan «Né con lo Stato né con le Br». Dopo tanto tempo ci si rendeva conto che si trattava «di miserabili che sparano contro gli operai», per dirla con Pertini. Rossa, molti se ne sono dimenticati in questi anni, fu «tra i più forti alpinisti del secondo dopo guerra». Ma nel 1963, durante una spedizione in Himalaya, il suo sguardo era stato colpito dalle condizioni di indigenza delle popolazioni locali. Dirà: «La cosa che mi ha fatto più impressione è stata la grande fame dell’Asia. Quella miseria ha suscitato il grande desiderio di fare qualcosa per alleviarla». Rossa consapevole che bisognava abbandonare «le vette scintillanti» per «scendere giù in mezzo agli uomini e lottare con loro». Per questo l’impegno nel sindacato e nella società.

Rossa era anche un uomo creativo. Realizzava dei crocifissi con gli scarti di produzione che poi regalava ai dirigenti per ricordare le fatiche dei lavoratori. Ennio Di Francesco, già funzionario di polizia e scrittore, in quegli anni era in servizio a Genova. «Quel giorno del ’73 – ci ha raccontato – c’era lui mentre dirigevo un servizio di ordine pubblico davanti ai cancelli dell’Italsider. Operai in tuta con cartelloni urlavano slogan contro i “padroni”, oltre a qualche insulto ai “servi in uniforme”. I capi dei manifestanti, tra cui Rossa, si erano avvicinati. Comunicammo. Gli insulti cessarono. La dimostrazione continuò tranquillamente. Dopo qualche giorno mi giunse in questura un pacchetto: dentro un crocefisso di pezzi di ferro e bulloni saldati. Avevo sobbalzato scoprendo che quel sindacalista, che diceva non credere in Dio, creava crocefissi saldando pezzi di ferro».

Cinque giorni dopo l’assassinio di Rossa, in una Milano mangiata dalla nebbia, Prima Linea colpì Emilio Alessandrini, 37 anni, il magistrato che indagava sulla strage di piazza Fontana. Lo uccisero mentre era in auto, fermo al semaforo. La sua colpa, secondo quello che i terroristi scriveranno nella rivendicazione, era quella di essere «uno dei magistrati che maggiormente ha contribuito a rendere efficiente la procura della Repubblica». Ai funerali, tenutisi il 31 gennaio in piazza Duomo, parteciparono 200 mila persone. Di Francesco, compagno di scuola di Alessandrini al liceo “Gabriele d’Annunzio” di Pescara, oggi è presidente dell’associazione “Emilio Alessandrini, uomo d’Abruzzo, magistrato d’Italia”: «C’eravamo rivisti a Pescara per il Natale 1978, lo avevo accompagnato alla festicciola che, pieno di entusiasmo, aveva organizzato per il figlio Marco. Lo avevo notato giocare con tenerezza con quel bambino. Il 29 gennaio, prima di andare nel suo ufficio della Procura dove lo attendevano fascicoli scottanti, come faceva sempre, aveva accompagnato Marco a scuola. Doveva avere lui nel cuore quando i colpi di pistola li avevano separati per sempre».

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