giovedì 24 ottobre 2019
Siamo entrati nella casa di reclusione della città laziale per assistere al bel film di Andò e Aiello, ispirato a “Il deserto dei tartari di Buzzati”, scritto dai detenuti assieme ai due registi
Un frame del film “Fortezza” diretto da Ludovica Andò e Emiliano Aiello

Un frame del film “Fortezza” diretto da Ludovica Andò e Emiliano Aiello

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La fortezza è il luogo per eccellenza dell’isolamento. Della protezione. Della sicurezza. E Fortezza è il titolo del film di Ludovica Andò e Emiliano Aiello, girato nella casa di reclusione di Civitavecchia dove vivono i detenuti che scontano la custodia attenuata e che hanno scritto insieme ai registi questo piccolo gioiello ispirato a un classico della letteratura, Il deserto dei tartari di Dino Buzzati, e tratto da uno loro omonimo spettacolo teatrale. In soli 17 giorni di riprese, per un totale di quattro ore al giorno, il film (prodotto dalla Compagnia Addentro in collaborazione con CPA-Uniroma3) racconta l’arrivo di tre soldati in un presidio militare dal nome Fortezza. C’è qualcuno come il Drogo di Buzzati che vorrebbe andare subito via, c’è chi sta sempre di guardia ed è ossessionato dall’arrivo di un nemico, c’è chi si arrende alla solitudine. Gli spazi, entro i quali si muovono i protagonisti, sono ampi, antichi, chiusi da porte arrugginite e da archi di mattoni; definiscono lo stato d’animo dei protagonisti che sottomettono il loro tempo impreciso, apatico e pesante, all’accidia delle loro esistenze.

Ricevono lettere («oggi solo in carcere la posta cartacea è ancora un sistema di comunicazione » spiega la regista) e si attribuiscono ruoli di potere per sopravvivere. La macchina da presa segue i loro volti, si avvicina per misurare le loro espressioni, rivelare stati d’animo: le loro scelte, pensieri e decisioni si perdono in questa indolenza naturale, manifestata nelle vite di tutti i protagonisti. «Che non sono personaggi – spiega la regista – ma persone che hanno imparato a lavorare sulla verità, non sulle maschere che spesso ci creiamo. Per loro stessi il teatro è rivelatore delle loro esistenza. Non ho l’abitudine di chiedere il motivo della loro detenzione. Non è importante nella costruzione di una storia teatrale. Prima o poi i detenuti, ed è questa la magia del teatro, imparano a lavorare sulla loro persona. La cosa più bella che un carcerato ci ha consegnato è avvenuta quando, alla fine di un laboratorio, ha confessato di essere felice di aver tirato fuori la rabbia nella recitazione, per la prima volta senza fare del male ad alcuno».

La naturalezza della recitazione, scandita dal lento ritmo della storia, si alterna anche alla composizione della musica di Andrea Pandolfo e delle immagini che fissano la possibile vita naturale che cresce e si muove all’interno della fortezza. Non c’è niente di finto in Fortezza, girato interamente nel carcere di Civitavecchia, che è «uno spazio creato perché la redenzione del detenuto sia possibile e non possa rimanere solo un’idea» spiega Ludovica Andò, che da undici anni realizza corsi di formazione teatrale per detenuti. Lo stesso edificio della casa di reclusione, costruito nel 1864 per volere del papa Pio IX, rappresenta un monumento storico ed è esemplare per la sua costruzione edile. È uno spazio, mai claustrofobico ma spesso dotato di luoghi aperti, dove la flora (all’interno c’è uno spazio curato come un vero giardino da un detenuto) e la fauna (all’interno delle mura ci sono due pony, gatti e anche selvaggi gabbiani che hanno nidificato sopra un tetto dell’istituto) sono in relazione con i detenuti. «Nel nostro carcere, in cui c’è la custodia attenuata, i detenuti siglano un patto di fiducia in cui si impegnano a seguire le attività artistiche, la formazione lavorativa, e a impegnarsi in un percorso psicologico », spiega Patrizia Bravetti, direttore della casa circondariale di Civitavecchia. «Il nostro è un teatro sociale e coinvolge non solo i detenuti, ma anche le guardie carcerarie – continua il direttore – . Non è stato un lavoro facile quello di Ludovica Andò, ma è stata capace di realizzarlo per la pazienza, il rispetto e la discrezione che ha avuto nel lavoro di formazione e nel ripensare, insieme a Emiliano Aiello e al gruppo di lavoro, il suo inserimento nella società».

Non è, Fortezza, un film solo per detenuti. Tra due giorni sarà presentato al Maxxi all’interno del Festa del Cinema di Roma, nella sezione per il sociale e per l’ambiente, alla presenza dei registi, ma anche degli stessi attori carcerati, ma poi viaggerà per le scuole e teatri. «Abbiamo realizzato questo film per chi vive fuori dalla casa di detenzione e ignora cosa possa succedere in questo luogo. Fortezza è un film che aiuta chi non ha vissuto un’esperienza di prigionia a capire come può diventare il futuro quando non si lavora sul presente. Durante un incontro un detenuto mi ha detto che voleva partecipare al nostro laboratorio teatrale perché si era stato stancato di vivere sulla panchina. E insieme abbiamo capito che le strisce della panchina rimangono non solo sul corpo, ma anche sulla testa e ci impediscono di pensare che sia possibile vivere una vita, fuori dalle sbarre». «Girare un film in un luogo vincolato da restrizioni – ha spiegato Emiliano Aiello, il primo che ha avuto l’idea del film – obbliga a ripensare il tempo e lo spazio della ripresa, dei dialoghi, del silenzio e del vuoto».

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