martedì 10 settembre 2019
Aveva 89 anni. Tra il 2010 e il 2013 aveva tenuto una rubrica quotidiana sulla prima pagina di "Avvenire", un diario diventato un libro, "Testamenti"
Lo scrittore ed ex magistrato Salvatore Mannuzzu

Lo scrittore ed ex magistrato Salvatore Mannuzzu

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È morto ieri a Sassari Salvatore Mannuzzu. Nativo di Grosseto ma sassarese a tutti gli effetti, Mannuzzu aveva 89 anni. Magistrato, deputato indipendente nelle liste del Pci per tre legislature, dal 1976 al 1987, Mannuzzu ha scritto romanzi come Procedura (Einaudi), a cui si è poi ispirato il regista Antonello Grimaldi per il film Un delitto impossibile. Con quel romanzo Mannuzzu vinse il Premio Viareggio e il Premio Giuseppe Dessì. Cui seguì un altro romanzo fortunato, Un morso di formica.

Nel 1992 con La figlia perduta fu finalista al premio Strega. Il suo ultimo romanzo, sempre per Einaudi, è del 2013 e s’intitola Snuff o l’arte di morire, uscito nel 2013. Tra il 2010 e il 2013 aveva tenuto una rubrica quotidiana sulla prima pagina di “Avvenire”, un diario diventato un libro col titolo Testamenti (edito dalle edizioni Il Maestrale e dalle Edizioni dell’Asino).

LA RUBRICA PROCEDURA

La letteratura italiana degli ultimi decenni ha avuto la sventura di diventare una pratica diffusa, consona alla "cultura del narcisismo" che ha travolto, con la mutazione degli anni Ottanta e dintorni le ultime generazioni (il postmoderno è un’epoca nuova nella storia del pianeta, non è un’invenzione della critica letteraria statunitense!). Un mondo di scriventi e non di scrittori, un mondo senza necessità e vocazione e doti adeguate, avrebbe precisato Elsa Morante, che fu lei a consigliarmi di leggere il grande romanzo isolano di un maestro di Mannuzzu, come lui magistrato, il Salvatore Satta nuorese del Giorno del giudizio.

Fu Procedura a farci scoprire Mannuzzu, grazie alla Einaudi (1988), e fu grazie a comuni amici “sardisti” che un giorno, a Firenze dove allora lavorava, conobbi Salvatore, Toti per gli amici (e io avrei potuto chiamarlo così quando ebbi conquistato la sua fiducia, ma non ho osato mai farlo, per quanto rispetto avevo per lui, cosciente del suo valore e della sua superiorità). Lo avevo cercato per chiedergli consigli su come fosse più giusto occuparsi di Sardegna sulla rivista che facevamo allora, “Linea d’ombra”. Nello stesso arco di tempo, a fine anni Ottanta, conobbi altri scrittori di cui mi onoro di essere stato amico, i maggiori tra i recenti isolani e tra gli italiani degli ultimi decenni, Giulio Angioni, anche grande antropologo, il più giovane (e sfortunato) Sergio Atzeni, e Alberto Capitta, che i “continentali” si ostinano a ignorare, che ha saputo narrare una Sardegna immaginata, solare e fiabesca. Capitta e Mannuzzu sassaresi, Angioni e Atzeni cagliaritani, ma non so giudicare dai loro libri la diversità tra il sud e il nord dell’isola. (Dovrei aggiungere a questi nomi quelli di due ottimi giallisti e di alcune notevoli scrittrici, ma li ho frequentati di meno e, alcuni o alcune, amati di meno).

Ho detto e scritto negli anni Ottanta e Novanta che i due nostri maggiori scrittori, dopo la scomparsa dei grandi del dopoguerra, non erano romani o milanesi o torinesi, ma il sardo Mannuzzu e la napoletana Ramondino, grande amica anche lei, e di questo giudizio sono ancora convinto anche se so di non essere seguito dalla turba degli accademici e dei critici “autorizzati”. Mannuzzu, col cagliaritano Todde, che è uno dei due maggiori “giallisti” ma poco noto, et pour cause, sul “Continente”, è tra gli scrittori che più hanno risentito, si potrebbe dire, di un’influenza russa, “dostoevskiana”, interessati a confrontarsi col Male, col “mistero dell’iniquità” di cui parlano i teologi. Il Male è un tema centrale dell’opera di Mannuzzu, da ultimo anche nella veste del male fisico che lo ha colpito legandolo negli ultimi lunghi anni al letto, ma questo male, da credente, egli sapeva controllarlo, capirlo e perfino metterlo a frutto, insistendo su una sorta di proverbio dei vecchi isolani che aveva sentito ripetere così spesso dalle donne di casa nella sua infanzia: «l’amaro ti sia caro». Dai momenti e dalle esperienze dolorose dell’esistenza si apprende chi siamo e cos’è la vita, la nostra fragilità ne viene messa alla prova, e “l’amaro” ci aiuta a capire meglio sia gli altri che noi stessi. Ci aiuta a diventare davvero adulti.

La prima esperienza pesante del Male egli l’aveva avuta con la tragica morte di un fratello più giovane di lui, bello mentre lui era, diceva, brutto, e che era destinato, diceva, a un grande avvenire. Dispiaceri di vario tipo afflissero la sua vita privata – recentemente aveva perso la figlia Lidia Maria, biologa e fisiologa, morta a 58 anni per un’embolia polmonare, e anche la moglie Nannetta – e dell’amaro dovette fare un’esperienza forte, ma che riuscì a mettere a frutto nella sua opera e in qualche modo a esorcizzare. Qualcosa di questa lotta trapela forse da La ragazza perduta, che è l’altro suo romanzo che prediligo, per una forte presenza femminile e per il confronto tra una grigia quotidianità e l’intervento inatteso del sentimento che è tra i più intensi della letteratura recente.

Il suo ideale religioso ma anche umano lo si può scoprire e capire dalle bellissime pagine di un libretto di cui sono stato immeritatamente coautore, il confronto in due testi diversi tra un credente (lui) e un non-credente (io) su una delle Beatitudini. Scegliemmo insieme di scrivere dei “Puri di cuore”, e quando confrontammo i nostri testi constatammo che quel che ci divideva era, nel nostro (soprattutto nel mio ) piccolo, lo stesso tipo di religiosità che divideva Dostoevskij da Tolstoj, i nostri rispettivi riferimenti... Mi onoro di questo, pur sapendo quanto scarsa fosse la mia profondità culturale e religiosa rispetto alla sua...
Di Salvatore Mannuzzu sono stato, con gli amici delle Edizioni dell’asino, anche “editore”, ripubblicando in volume una parte consistente (secondo la sua scelta) dei testi che scrisse settimanalmente e per molti anni per “Avvenire” (volle dargli il titolo di Testamenti) e prima ancora gli interventi di Cenere e ghiaccio, che ebbe per sottotitolo “Undici prove di resistenza” (2009). Contiene interventi bellissimi, per esempio quello finale e brevissimo su La contraddizione di Dio, o quello su Le ceneri di Gramsci (il Gramsci che resiste e resiste...), ma il saggio cui sono più affezionato riguarda un film, ché Mannuzzu era un appassionato di cinema, e del cinema più ambizioso come del più semplice e bensì più dotato di grazia. Il film era Monsieur Verdoux di e con Chaplin, ed era anche questo una meditazione sul Male nel singolo, e sul male nella e della Storia. Ma uno dei ricordi di lui che mi porterò dentro più a lungo è la presentazione a Sassari del libro di un comune amico, suo concittadino e compagno suo e mio di più lotte, Luigi Manconi. Eravamo in pochi, ma sentii nel gruppo la presenza di una tensione morale e politica comune, e mi sembrò di avvertire quella che, forse esagerando, considero una diversità isolana, rispetto alla superficialità di cui soffre da sempre la cultura (l’antropologia) italica, quella che i sardi chiamano “continentale”... Dopo Atzeni e Angioni, ci ha lasciato anche Mannuzzu. Ma restano altri, e restano i loro libri, e il loro fortissimo ricordo in chi ha avuto la fortuna di conoscerli e frequentarli.

Dunque: che la distrazione “continentale” non prevalga, e che il vecchio canto sardo di lotta e di liberazione che con Mannuzzu amavamo ripetere, «Procurate moderare, barones, sa tirannia», sia ancora di monito a chi ci governa, come avrebbe detto il magistrato, il militante, lo scrittore, il credente Salvatore Mannuzzu!

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