Una scena della serie di Netflix tratta da “Cent’anni di solitudine” di Gabriel García Márquez - Web
Farfalle gialle dipinte sui muri. Pesciolini d’argento sparsi a mo’ di decorazioni. Il corpo perfetto di “Remedios La Bella” scolpito nella piazza. Perfino un colonnello Aureliano Buendía in carne, ossa e divisa fiammante che posa per i visitatori più esigenti, in attesa perenne del plotone di esecuzione di fronte al quale ricorderà il giorno in cui il padre lo portò a vedere il ghiaccio. Cent’anni di solitudine è dappertutto ad Aracataca, municipio nascosto tra le piantagioni di banane dei Caraibi colombiani che la penna di Gabriel García Márquez ha trasfigurato in Macondo. Tranne che dove ci si aspetterebbe di trovarlo: sugli scaffali di una libreria. In realtà, non c’è nemmeno quest’ultima. Di fronte alla casa-museo dove nacque lo scrittore-Nobel, in qualche bancarella, si può trovare qualche copia in edizione economica dei suoi romanzi, semi-nascosta tra tazze, portachiavi e magneti. Non, però, l’opera più famosa che, con cinquanta milioni di esemplari venduti, ha catapultato la letteratura latinoamericana sulla ribalta globale. «Beh, se uno viene qui è perché l’ha già letto», risponde Mariana, la più loquace delle venditrici, senza scomporsi. «Comunque presto avremo una nostra rivendita ufficiale», aggiunge Alejandra che accoglie il pubblico nella “Casa del telegrafista”, l’ufficio dove lavorò il padre dell’autore, Gabriel Eligio García, tra il 1923 e il 1926. «La allestiremo qui», sottolinea mentre indica lo spazio dietro la sala principale dove, al posto d’onore, si trova lo strumento con cui Gabriel Eligio inviava messaggi d’amore all’allora fidanzata, Luisa Santiaga Márquez, spedita dai genitori a Rioacha nell’inutile intento di tenerla lontano dall’intraprendente spasimante: i due, ovviamente, si sposarono “in segreto” nel giugno 1926. Esattamente nove mesi dopo, il 6 marzo 1927, nacque Gabo, come i colombiani chiamano affettuosamente il loro cantore. «I genitori, poi, si trasferirono a Santa Marta. Ma lui rimase con i nonni ad Aracataca, la sua vera patria – racconta Alejandra -. La libreria sarà la chicca. Aprirà presto». “Presto”, cioè “ahorita”, espressione locale che indica un lasso di tempo variabile tra qualche minuto e mai. Nel 2010, quando è cominciata la trasformazione di Aracataca in Macondo, si sentiva dire spesso. All’epoca, l’ufficio del telegrafo non era ancora diventato ufficialmente un’esposizione permanente anche se guide improvvisate consentivano, comunque, di dare una “sbirciata”. C’era solo la Casa-Museo, ricostruita nel punto esatto dove sorgeva l’originale in cui venne alla luce lo scrittore. La copia della culla in ferro battuto, in cui dormì per quattro anni, è il pezzo forte della struttura, inaugurata il 25 marzo 2010. Tre anni prima – in occasione dell’ottantesimo compleanno, del 40° anniversario dell’uscita di Cent’anni di solitudine e del 25° del Nobel - García Márquez e Mercedes Barcha, moglie nonché compagna di avventure letterarie, erano tornati al paese, da cui mancavano dal 1983. Li aveva accolti una folla in tripudio che si accalcava intorno al carro tradizionale a bordo del quale le autorità avevano organizzato il tour. A lungo campo di battaglia tra i paramilitari d’ultradestra e la guerriglia marxista, nella prima decade del XXI secolo, questo frammento di Colombia cercava di approfittare del pugno di ferro dell’allora presidente Álvaro Uribe per ritrovare un’apparente normalità. La ripresa del turismo doveva sancire il principio del nuovo corso. I luoghi dello scrittore simbolo del Continente, padre del realismo magico – Cartagena, Santa Marta e, soprattutto, Aracataca - erano funzionali al rilancio. Solo dopo la morte, il 17 aprile 2014, tuttavia, è esplosa appieno la “Gabo-mania”. Il municipio di 40mila abitanti si è popolato di murales e busti a lui dedicati. La statua del Nobel seduto davanti alla macchina da scrivere ha relegato in un angolo quella di Simón Bolívar, eroe nazionale, nell’omonima piazza. Sono perfino sorte due biblioteche, una intestata a lui e l’altra a “Remedios La Bella”, icona di Macondo. Le copie in vendita di Cent’anni di solitudine, però, non sono arrivate. Ancora. «Presto – ribadisce Alejandra - andranno a ruba. Lei non è la prima che ce lo chiede, sa?».
Il 2024 è stato l’anno “marquesiano” per antonomasia. Il 6 marzo – giorno del compleanno dello scrittore - è stato pubblicato il romanzo postumo Ci vediamo in agosto, edito in Italia da Mondadori. García Márquez l’aveva composta a tratti, a causa dei problemi di memoria, negli ultimi anni di vita. Il risultato, però, non l’aveva convinto. Il libro, dunque, era rimasto nel cassetto. I figli, Rodrigo e Gonzalo, però, dopo un lungo giro di consultazioni, hanno voluto riscattarla dall’archivio dell’Università del Texas dove era rimasta sepolta per un decennio. E pubblicarla per il decimo anniversario dalla scomparsa. Mercoledì 11 dicembre, poi, il momento clou: Netflix lancerà in 190 Paesi la serie tratta da Cent’anni di solitudine. Una sfida titanica: è la prima volta che l’opera-simbolo del realismo magico approda sugli schermi. L’autore, innamorato del cinema e abile sceneggiatore, era restio a una sua trasposizione per via della trama intricata che accompagna diverse generazioni del clan Buendía. A convincere gli eredi, che hanno venduto i diritti alla piattaforma nel 2019 e hanno partecipato allo sforzo come produttori esecutivi, è stata proprio la possibilità del formato ampio – sedici episodi divisi in due stagioni -, offerto dalla serie. La lunghezza “congrua”, insieme alla produzione in Colombia e all’impiego dello spagnolo come lingua originale, erano le condizioni di Gabo per il via libera alla versione cinematografica. Netflix le ha accettate senza battere ciglio. Preceduta dal film Pedro Páramo del messicano Juan Rulfo, la serie, diretta da Alex García López e Laura Mora, è il cuore del filone “letterario” appena inaugurato dal colosso, a cui faranno seguito adattamenti delle opere di Laura Restrepo, Jorge Ibargüengoitia e Ángeles Mastretta. Nel parco di Aracataca, gli operai hanno appena finito di piazzare il maxi-schermo su cui, grazie alla Fondazione Gabo, il Comune e il ministero della Cultura, alle 17.30 (sarà notte in Italia) verranno proiettate le prime due puntate.
Un piccolo risarcimento per la scelta di Netflix di ricreare la città dei Buendía nelle regioni di Tolima e La Guajira. Del resto, come amava ripetere Gabo, «Macondo non è un luogo bensì uno stato d’animo che consente di vedere e di vederlo come si vuole».