domenica 15 novembre 2020
Lo scrittore nasceva esattamente cento anni fa a Comiso. Scoperto da Sciascia, il suo debutto letterario arrivò a 61 anni con “Diceria dell’untore”, subito premiato con il Campiello
Lo scrittore Gesualdo Bufalino (1920-1996)

Lo scrittore Gesualdo Bufalino (1920-1996)

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Nel 1981, quando Sellerio mandò in libreria Diceria dell’untore, di Gesualdo Bufalino si sapeva poco e niente. E non per distrazione di critici e lettori. Fino a quel momento, infatti, Bufalino era stato uno scrittore segreto, un appartato professore di lettere che per anni e anni aveva aveva tenuto nascosto il proprio lavoro di narratore e poeta. Poi, nella seconda metà degli anni Settanta, c’erano state un paio di sortite imprudenti: la curatela di un volume di argomento locale e, più che altro, la prefazione a un libro fotografico sulla vecchia Comiso, la città in provincia di Ragusa nella quale Bufalino era nato il 15 novembre 1920, esattamente un secolo fa. Leonardo Sciascia era rimasto colpito dalla ricercata eleganza di quella prosa, era entrato in confidenza con l’autore, aveva avuto l’intuizione e, a breve, la conferma dell’esistenza di un romanzo ancora inedito e che inedito probabilmente sarebbe rimasto, se lo stesso Sciascia non avesse preso l’iniziativa. Diceria dell’untore fu pubblicato, invece, e subito recensito, acclamato, premiato con il Campiello. Perché tanto entusiasmo? Per almeno tre motivi, nessuno dei quali entra in contraddizione con gli altri, né tanto meno li esclude. Tanto per cominciare, Diceria dell’untore era, e rimane, un libro straordinario, che ribadiva la possibilità e la legittimità del romanzo dopo un decennio di contestazioni ideologico–metodologiche e di premature dichiarazioni di morte a carico del più tenace e contestato fra i generi narrativi. Una Montagna incantata (o “magica”, secondo la più recente traduzione) concentrata in poco più di duecento pagine, con un altro sanatorio, la Rocca, trasferito dalle Alpi svizzere di Thomas Mann alla Sicilia e l’amore tormentato per la sfuggente Marta ad amplificare un’inquietudine che non tardava a svelare la sua origine metafisica.

Bufalino raccontava benissimo e lo faceva – è il secondo elemento di cui tenere conto – con uno stile straordinario, nel quale l’esuberanza barocca era continuamente tenuta a bada da una reticenza non meno intenzionale e, nello stesso tempo, non meno istintiva. Era questa lingua stratificata ed estesa ad ammaliare i lettori, la stessa lingua che Bufalino aveva forgiato nei lunghi anni del suo silenzioso apprendistato e della quale ancora si sarebbe servito nelle opere successive, fino alla morte improvvisa, avvenuta il 14 giugno 1996 per un incidente d’auto dalle parti di Vittoria. Aggiungere a queste due ragioni una terza, di natura più strettamente personale e biografica, non significa affatto sminuire il valore di Bufalino. Al contrario, il suo era uno di quei casi in cui lo scrittore è a sua volta un personaggio della propria opera, e non un personaggio marginale. Sì, alla base di Diceria dell’untore c’era un fatto reale, sia pure abilmente rimodulato, ma il punto non era questo. Bufalino stesso sembrava uscito da un libro di cui avrebbe potuto essere l’autore. Segaligno, con quei grossi occhiali scuri e gli abiti orgogliosamente fuori moda, portava con sé la leggenda del ragazzo che era stato, talmente avido di letture da ritradurre in francese I fiori del male di Baude-aire, di cui all’epoca conosceva solamente la versione italiana. Eccezion fatta per gli anni della guerra, durante i quali aveva stretto amicizia con l’intellettuale cattolico Angelo Romanò, aveva vissuto sempre in Sicilia, spostandosi di rado da Comiso. Aveva letto moltissimo, aveva scritto poesie luminose e terribili (usciti da Einaudi nel 1982, i versi di L’amaro miele sono stati da poco riproposti in un’edizione della Fondazione Bufalino, a cura di Nunzio Zago e con le illustrazioni di Alessandro Finocchiaro), aveva accumulato note e appunti destinati a confluire, tra l’altro, nell’estroso Dizionario dei personaggi di romanzo. E aveva scritto Diceria dell’untore, si capisce.

Dopo il successo ottenuto con quell’esordio tardivo, le pubblicazioni si erano susseguite a ritmo incalzante: Museo d’ombre, Argo il cieco e Cere perse ancora da Sellerio, nel 1986 il passaggio a Bompiani (che ha attualmente in catalogo una raccolta delle sue Opere in due volumi) con L’uomo invaso, il premio Strega assegnato nel 1988 a Le menzogne della notte, non il suo romanzo più riuscito, ma nondimeno caratteristico per la riflessione sulla necessità e tendenziale inaffidabilità del racconto. Sono solo alcuni dei titoli di una bibliografia che, nell’arco di pochi anni, aveva assunto proporzioni imponenti. Nel 1996, al momento della morte, Bufalino aveva appena pubblicato Tommaso e il fotografo cieco ed era impegnato nella stesura di un altro romanzo, ispirato alla figura dello scacchista José Raúl Capablanca e rimasto incompiuto. A distanza di tempo, la sicilianità resta l’aspetto più evidente della sua opera, che non è difficile collocare all’interno di una geografia letteraria, regionale e cosmopolita insieme, nella quale convergono a vario titolo Giuseppe Tomasi di Lampedusa e Stefano D’Arrigo, il già ricordato Sciascia e Andrea Camilleri. In questo paesaggio sempre sospeso tra la luce e il lutto, per citare una formula dello stesso Bufalino, la voce di Diceria dell’untore e di tanti altri suoi testi rivendica una consapevolezza teologica che assume spesso un’intonazione polemica, da contesa con Dio, ma che segna comunque un punto fermo nel percorso spirituale del nostro Novecento. «Sia come vuoi, Tu che mi spii», si legge nell’Amaro miele. Sono sette parole in tutto, tante quante Cristo ne pronuncia sulla Croce. Difficile pensare che sia solo una coincidenza.

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