mercoledì 11 marzo 2015
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In principio erano i gusti, con la bistecca da mordere e il coscio di pollo da rosicchiare, poi venne la standardizzazione con l’uniforme morbidezza dell’hamburger e delle crocchette di pollo. In principio ogni mamma cucinava per far contenti i suoi bambini, poi arrivò McDonald’s. Si potrebbe raccontare anche così l’avventura globalizzatrice dell’ultimo mezzo secolo, una delle sfide alle quali l’Expo dovrebbe fornire risposte concrete. Ma, come spiega il sociologo dello Iulm di Milano Vanni Codeluppi in Il gusto. Vecchie e nuove forme di consumo (Vita e pensiero, pagine 88, euro 10), si finirebbe per dire soltanto una mezza verità. Il restante 50%, infatti, racconta che negli anni Sessanta del ’900 ogni singolo individuo aveva a disposizione una possibilità di scelte di cibo molto inferiore all’attuale. Tanto per intenderci, non c’erano gli attuali imponenti scaffali di supermercato, non c’erano i negozi e i ristoranti etnici. Soprattutto non c’era la conoscenza per ipotizzare un modo di mangiare diverso da quello dell’ambiente in cui si era cresciuti.Allora non è vero che i gusti si stanno standardizzando?«Ci sono due spinte contrastanti. C’è un processo di articolazione del gusto in ogni campo, attivato dall’innalzamento medio del livello culturale, da internet e dalla globalizzazione che ci avvicinano sempre di più alle usanze di altri Paesi. Ma c’è anche una forte spinta all’omologazione del gusto messa in atto dai marchi globali, che per una questione di ottimizzazione dei costi operano scelte massificanti di produzione, di marketing e di vendita. Per esempio, tornando a parlare di cibo, le patatine della multinazionale degli hamburger, sono condite con una miscela aromi, zucchero e sale tale da rendere il loro gusto soft, invariabile e piacevoli per tutti».Spetta quindi al consumatore scegliere «differente» o appiattirsi sui gusti delle multinazionali?«Esattamente. E soprattutto oggi che non ci sono più gruppi di appartenenza ideologica identificativi anche in fatto di gusti e di estetica, come accadeva qualche tempo fa. Viviamo in una società in cui le scelte personali diventano fondamentali per caratterizzare se stessi. Ciascuno può realizzare il suo mix di gusti preferiti nel tentativo di differenziarsi dai suoi simili e può tentare di avvicinarsi, in questo, a un suo riferimento più alto: un personaggio, un calciatore, un’attrice, un gruppo sociale»....e in famiglia diventa sempre più difficile mangiare alla stessa tavola...«È una delle ragioni. Siamo sempre più abituati a soddisfare i nostri gusti. Mangiamo senza orario, quello che vogliamo. Così quando una madre mette a tavola una pietanza finisce che non piace a tutti...».Lo stesso ragionamento vale per la moda?«La moda non è più capace di standardizzare i gusti come una volta. Oggi esistono tante micromode con una diffusione limitata ad ambienti, età, città, gruppi e classi sociali... Ogni persona si trova davanti a una quantità di proposte». Apparentemente le possibilità sono tante, ma nella sostanza il sistema sembra spingere verso l’omologazione.«Sono le multinazionali ad avere interesse alla standardizzazione per ciascuno dei settori commerciali nei quali sono presenti. Questo comporta che tante volte anche le piccole aziende cercano di imitarne le strategie. Resta però il fatto che mai come prima il singolo individuo può diversificarsi... se ha una cultura, una formazione, un’educazione allo spirito critico capaci di fare la differenza».È comunque difficile uscire dalla logica che ci vuole tutti giovani, efficienti e belli...«Esiste un evidente interesse commerciale a fare in modo che gli adulti restino bambini, non perdano il senso del ludico, dell’evasione dalla realtà. E questo lo si fa in tutti i campi, anche nel cibo. Nel libro ho fatto l’esempio della solita multinazionale degli hamburger che punta all’infantilizzazione della società. Un tempo il cibo per gli adulti era una cosa che si tagliava col coltello, si masticava; quello per i piccoli era morbido, tenero. Gli hamburger, le crocchette di pollo, le patatine fritte sono caratterizzate da un gusto soft unificato, da una morbidezza indistinta che assimilano al cibo dell’infanzia. In sostanza sono un «sostituto materno» in quanto soddisfano l’ancestrale bisogno di regressione, di protezione. In quel cibo c’è la proposta di calmare l’angoscia come fa il piccolo succhiando il seno materno, poi il pollice, la caramella, la sigaretta. Si tratta di cibi che si trovano in ambienti che rompono con le regole imposte dal padre: si mangia in piedi, spesso da soli, con le mani, facendo rumore e rimpinzandosi a volontà. Insomma, come sostiene il sociologo dela decrescita Paul Ariés, le multinazionali degli hamburger sono una mamma che vizia i propri figli e ne impedisce lo sviluppo psichico».Una logica inquietante.«È vero, ma, lo ripeto, mai come adesso abbiamo tanta possibilità di scegliere. Il problema è solo educativo. E oggi non ci sono più modelli educativi forti, capaci di sviluppare senso dell’orientamento, criticità nel giudizio e nelle scelte. Il risultato è che molti finiscono in balia di questi meccanismi commerciali pervasivi».Si potrebbe dire che non c’è più la mamma che insegna a mangiare e a cucinare?«Certo. Si è persa la trasmissione generazionale del gusto, della capacità di creare gusto. Lo dimostra il successo dei programmi televisivi di cucina: le persone non sanno come fare e allora passano da un consiglio all’altro senza avere un’educazione alimentare di base capace di guidarle».
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