giovedì 25 marzo 2021
Il “capofamiglia” della serie israeliana che torna stasera su Netflix: «Il rapporto conflittuale tra padre e figlio su due livelli: quello dell'ebraismo e quello universale»
Dov Glickman “Shulem” con il regista di Shtisel, Alon Zingman

Dov Glickman “Shulem” con il regista di Shtisel, Alon Zingman - Vered - Courtesy Yes Tv

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«Dopo tanti ruoli comici, entrare nel personaggio di Shulem è stato come riscoprire una parte di me stesso. E dell’ebraismo». Dov Glickman è il protgonista della serie televisiva israeliana Shtisel, che questa sera torna con al terza stagione su Netflix: interpreta il ruolo del capofamiglia, è il padre di Akiva, novello Romeo interessato all’arte in una Gerusalemme contemporanea raccontata dal balcone del quartiere ultraortodosso di Geula. Shulem è un rabbino nella comunità haredi (ultraortodossa), ma è soprattutto un padre alle prese con le sfide lanciate dal figlio più giovane e più aperto al mondo secolare che lo circonda. Conflitti e sfumature che attraversano da sempre la complessa società ultraortodossa e che vengono raccontati magistralmente nella serie.

DIECI COSE DA SAPERE SUGLI HAREDIM di Barbara Uglietti

La prima stagione, inizialmente distribuita soltanto sul canale israeliano Yes, ha immediatamente incollato allo schermo l’intera nazione, che poco o nulla conosce del mondo, così vicino eppure così lontano, degli haredim. Visto il successo inaspettato, sceneggiatori e produttori si sono ritrovati a dover scrivere il seguito della complicata e affascinante storia della famiglia Shtisel.
Classe 1949, nato a Tel Aviv da una famiglia di ebrei immigrati dalla Russia, Dov Glickman appartiene alla prima generazione di sabra (gli israeliani nati in patria). Fa parte di un “quartetto” costituito da altri tre grandi attori israeliani (Moni Moshonov, Shlomo Baraba and Gidi Gov), che è diventato un'icona nazionale grazie al programma satirico Zehu Ze, in onda su Channel 1, il canale principale della televisione israeliana. Ha alle spalle cinquant'anni di carriera tra cinema, teatro e televisione, e una robusta collezione di premi, tra cui quello ricevuto, per due anni consecutivi, proprio grazie a Shtisel, come migliore attore protagonista nell’Israeli Academy Award.

La seconda stagione finisce con la sequenza di Shulem che rovina il dipinto di Akiva. Che significato ha questo gesto e come ci accompagna nella terza stagione?
Il filo conduttore della serie è il rapporto conflittuale tra padre e figlio, che in questa produzione si articola su due livelli. Il primo è quello dell’ebraismo, e la serie ne mostra tutte le sfumature e complessità: dal conservatorismo degli ultraortodossi, rappresentato dal mio personaggio di rabbino, all’apertura verso il mondo laico, anche attraverso la passione per l’arte, impersonata da Akiva. Poi c’è un piano universale, perché le tensioni tra padre e figlio attraversano qualsiasi società nel mondo. Credo che proprio questo possa spiegare il successo della serie televisiva anche al di fuori di Israele. Il segreto di Shtisel è quello di farci immergere in un microcosmo in cui ognuno riesce facilmente a identificarsi con personaggi differenti grazie alle sfaccettature con cui sono stati descritti. E tutto il processo viene stimolato dalla curiosità verso un mondo misterioso e molto particolare, che è quello degli haredim.

Nelle due precedenti stagioni Shulem è sembrato molto più in difficoltà di Akiva. Lo vedremo “imparare” qualcosa dal figlio nelle puntate che ci attendono?
I genitori, in tutte le società del mondo, credono sempre di sapere cosa sia la cosa giusta per i propri figli. E Shulem vuole che Akiva si sposi e metta la testa a posto, lasciando perdere le sue velleità artistiche. Ma Shulem è anche un rabbino, e assume, come tale, per il suo personaggio, la capacità di ascoltare e comprendere il punto di vista altrui. Cosa non sempre facile: “Due ebrei, tre opinioni”, dice il detto ebraico. Shulem discute con Akiva, prova a consigliarlo, perde qualche battaglia con lui, ci riflette su, borbotta: insomma interpreta a perfezione l’aspetto dialettico dell’ebraismo. Ma sdoprattutto è un padre che ama suo figlio, che sta crescendo insieme a lui. E non vuole rischiare di perderlo, come Abramo durante il sacrificio di Isacco. Sono tutti archetipi dalla portata universale.
Shulem, come tutti i personaggi più adulti della serie televisiva, parla in yiddish. Lei conosceva già la lingua o ha dovuto studiarla appositamente?
I miei genitori sono immigrati qui dalla Russia negli anni venti: appartengo a quella generazione di israeliani per cui l’yiddish era una consuetudine. Pur non avendolo mai studiato, ho sempre avuto familiarità con la lingua. Anche se per questo lavoro ho dovuto dedicare una particolare attenzione allo studio della mia parte.
Per quanto riguarda la preparazione al suo personaggio, qual è stata la cosa più difficile?
Imparare a rappresentare correttamente tutti i rituali propri dell’ortodossia. Anche soltanto, per fare un esempio, il modo più appropriato di toccare la mezuzah (l’oggetto rituale posto sullo stipite della porta) entrando in una stanza. Per tutto il cast di attori è stata prevista la consulenza di un esperto. Siamo stati seguiti passo per passo, consigliati con minuzia su come procedere per rispettare tutto ciò viene praticato nelle comunità ultraortodosse a livello quotidiano. Si è trattato di un processo di approfondimento della mia religione molto interessante. L’ho considerato un grande arricchimento. C’è qualcosa che però ha comportato un’enorme fatica…
Cosa?
Indossare barba e payot (i riccioli ai lati della faccia) finti per 12 ore al giorno durante le riprese. A cui va aggiunto il tempo necessario per metterli e toglierli.
Cosa vuole dire al pubblico italiano che vi segue appassionatamente da due stagioni?
Che è per me un grande onore essere seguito dal Paese straniero che amo di più al mondo. Appena la gestione della pandemia ci consentirà di tornare a viaggiare, l'Italia sarà il primo posto in cui vorrò tornare. Mai come in questi mesi così difficili mi sono sentito, e mi sento, tanto vicino a tutti voi.

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