mercoledì 4 gennaio 2017
La figlia del grande Felice si candida alla presidenza della Federciclismo. «Una donna al vertice è una sfida in salita ma ho competenza e passione per tentare di cambiare il movimento»
Norma Gimondi, la figlia di Felice, tenta la scalata alla presidenza
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Di norma le figlie adorano il proprio papà e Norma Gimondi non fa eccezione. Il papà è di quelli che hanno carisma e temperamento, anche se con il passare degli anni «sono diventato molto più tranquillo e meno esigente», dice papà Felice, con gli occhi lucidi e la voce leggermente incrinata per l’emozione. Norma Gimondi si candida alla presidenza della Federazione Ciclistica Italiana (Fci). Le elezioni saranno a Rovereto ( Trento) il prossimo 14 gennaio. Quarantasei anni, avvocato civilista, da ragazzina non ha mai corso in bicicletta, anche se ha sempre avuto una grande passione per le due ruote e appena può, ancora oggi, le sue belle passeggiate o qualche gran fondo le fa più che volentieri. «Percorro più di 4 mila chilometri all’anno e ho anche scalato il Mont Ventoux… », ci tiene a precisare. È una figlia di papà, anche se alle proprie spalle, silenziosa e scrupolosa come ogni buona madre c’è Tiziana. E poi Federica, la sorella. Insomma è una figlia di papà nata e cresciuta in una bella famiglia, con la “F” maiuscola. «So che la sfida sarà durissima, anche perché il meccanismo elettivo delle Federazioni sportive è molto particolare e complesso. È una questione di Grandi Elettori, bisogna girare l’Italia per farsi conoscere, per presentare il proprio programma - ci dice Norma -. È una sfida tutt’altro che semplice e scontata, non sarà facile battere l’attuale presidente Renato Di Rocco, che è cresciuto al Coni, che è stato per anni Segretario Generale della Federciclismo ed è presidente da tre mandati. Insomma, conosce la macchina politica-sportiva come pochi altri in Italia, ma io ce la metterò tutta per far capire che io posso portare qualcosa di nuovo in uno sport che amo profondamente. Anche papà ha lottato da par suo con un certo Eddy Merckx, quindi…».

Come le è nata l’idea di candidarsi?
«La verità? La scintilla è scoccata quasi per caso. Io non ci pensavo minimamente, però un bel giorno un gruppo di persone che da anni sono nel mondo del ciclismo me l’hanno buttata lì: “Norma perché non ti candidi? Potresti fare molto bene”, mi hanno detto. Ci ho pensato un po’ su e ho poi deciso di mettermi in gioco».

Qual è stata la prima reazione di papà Felice alla notizia della sua decisione di provare a scalare una delle Federazioni più prestigiose d’Italia?
«Papà è un tipo di poche parole, e quando una sera gli ho detto quello che avevo in mente di fare lui ha semplicemente abbassato gli occhi e poi mi ha detto con il suo bel vocione: “Ne sarei orgoglioso. Se ne sei sicura, vai avanti”. So che in altre circostanze, a qualche giornalista, ha confidato che se fosse stato per lui mi avrebbe consigliato di lasciar perdere, ma questo penso che sia un sentimento protettivo che ha maturato dopo. Sa che sarà difficilissimo, tutt’altro che semplice, e probabilmente teme che io possa restarci male in caso di sconfitta. Ma io sono invece serenissima: darò tutta me stessa per prevalere in questa contesa».

Il ciclismo, soprattutto a cavallo degli Anni Novanta-Duemila, ha dovuto affrontare la piaga del doping e lei in più di un’occasione si è trovata a difendere corridori trovati con le mani nella marmellata. Che idea si è fatta?
«Oggi la situazione mi sembra che sia migliorata moltissimo, anche se non va assolutamente abbassata la guardia. Anche perché il doping è sempre troppo avanti rispetto all’antidoping. E non si tratta più di sostanze, ma di metodi dopanti molto sofisticati e di difficile individuazione».

Sa che anche tra gli amatori ci si dopa sempre di più?
«Certo che lo so ed è una follia. In Italia c’è troppa esasperazione, troppo agonismo. Da noi è tutta sfida, in Francia c’è invece la cultura della partecipazione, del piacere di pedalare e stare assieme. Se vanno tolte le classifiche? Non credo che si debba arrivare a tanto».

Ma l’esasperazione c’è già anche nelle categorie giovanili…
«Per i giovanissimi il ciclismo dovrebbe essere un gioco, ma qui subentra la famiglia, gli educatori, che sono la vera causa di dei mali. Occorre cambiare la cultura».

Uno dei grandi problemi, soprattutto per le famiglie, è il traffico: le strade sono sempre più pericolose e i genitori non danno volentieri i loro ragazzi alle società.
«È un problema enorme, e per superare questo è necessario investire in piste e circuiti protetti. Occorre visione e managerialità per avvicinare sponsor e reperire finanziamenti. Bisogna promuovere la mountain bike e il ciclocross che permette allenamenti protetti. Prenda Milano: la situazione è semplicemente drammatica, ma c’è la Montagnetta e lì si potrebbero ideare percorsi protetti per i ragazzini. Bisogna trovare il modo di toglierli dalla strada».

Eppure la pratica del ciclismo è in crescita esponenziale: è un vero boom. Tanti in bicicletta, anche con quelle elettriche.
«Proprio per questo dobbiamo fare qualcosa al più presto. C’è sensibilità e attenzione. La bicicletta è un’opportunità e una Federazione attenta e capace deve sfruttare al meglio questo momento. Le e-bike sono un’opportunità fantastica per avvicinare al ciclismo anche chi proprio non ci ha mai pensato».

Cosa ha in serbo di fare se diventasse la prima donna alla guida di una delle Federazioni più antiche (131 anni) e prestigiose?
«Intanto sarebbe una novità, in un mondo che è tanto, forse troppo maschilista. In ogni caso la mia non è una sfida di genere, ma di contenuto. Vorrei migliorare la situazione del ciclismo italiano, che versa non in buonissime acque. Ci sono tante cose da fare, soprattutto a livello giovanile. Tantissime sono le società che sono la parte sommersa del nostro movimento ma fanno sacrifici enormi per la crescita e vanno valorizzate e aiutate. E poi penserei ai velodromi: possibile che da noi ci sia solo un palazzo dello sport coperto (Montichiari). Io ho ancora negli occhi le Sei Giorni di Milano che papà correva al palazzone dello sport di San Siro, quello crollato in seguito alla nevicata del 1985. Mi piacerebbe tornare lì, a fare qualcosa che possa servire alla promozione del nostro sport e nel contempo dia la possibilità di autofinanziarci».

Punti salienti del suo programma?
«Il primo passo è la riforma dello statuto, da realizzare attraverso la convocazione di un’assemblea straordinaria. Le priorità di questa riforma: la creazione di un consiglio di presidenza che oggi esiste soltanto sulla carta, perché all’atto pratico decide tutto il presidente; la fissazione di un limite massimo di due mandati; l’incompatibilità fra cariche nazionali e internazionali; la revisione della normativa dei comitati regionali che, attualmente, escludono regioni che non arrivano ai numeri previsti, vedi Molise; l’ammissione al consiglio federale, come semplici uditori, di rappresentanti dei comitati regionali più importanti, come Lombardia, Veneto, Toscana. Infine, di fondamentale importanza è l’introduzione di un federalismo fiscale che decentri parte delle risorse finanziarie raccolte nelle regioni più virtuose. E poi serve una Federazione che sappia attirare le imprese e gli sponsor».

Un programma “rivoluzionario”...
«No, ma abbiamo l’assoluta necessità di svecchiare il sistema, di fare qualcosa che aiuti le squadre e gli atleti a non migrare necessariamente all’estero. Per questo serve un riforma profonda nel sistema fiscale e l’adeguamento della legge numero 91 sul professionismo che è del marzo del 1981: ha fatto il suo tempo, è a tutti gli effetti anacronistica. Oggi ci sono troppi vuoti normativi. Il ciclismo è radicalmente cambiato e non necessariamente in meglio. In questo contesto invece la nostra Federazione è rimasta invece immobile. Per queste ragioni e non solo per queste, ho deciso di fare la mia corsa. Penso di avere competenze e passione. Alle mie spalle ho anche una buona squadra: insomma, sono pronta a pedalare. La strada è in salita? È il terreno che prediligo ».

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