sabato 30 novembre 2019
La grande “beffa” del portiere Daffe e la resa della Aloku (Juve), che lascia l’Italia dopo aver sperimentato la discriminazione fuori dal campo
Eniola Aluko, 32enne nigeriana attaccante della Juve Womens (Ansa)

Eniola Aluko, 32enne nigeriana attaccante della Juve Womens (Ansa)

COMMENTA E CONDIVIDI

Questa pagina è un atto dovuto a un maestro, anche di vita, come Mauro Valeri (sociologo fondatore dell’Osservatorio sul razzismo e antirazzismo nel calcio) prematuramente scomparso (aveva 59 anni) nei giorni scorsi a Roma, e poi l’ennesimo grido d’allarme che lanciamo da Avvenire. Perché è inaccettabile che Eniola Aluko, la 32enne attaccante della Juventus Womens che a sorpresa ha deciso: oggi contro la Fiorentina sarà la sua ultima partita in bianconero e nel campionato di Serie A femminile italiano. Motivazione: colpa della discriminazione per il colore della pelle subita in un anno e mezzo di successi in campo (uno scudetto una Coppa Italia e una Supercoppa italiana, più titolo di top score della passata stagione) ma di troppe amarezze vissute fuori.

«A volte Torino sembra un paio di decenni indietro nei confronti dei differenti tipi di persona. Sono stanca di entrare nei negozi e avere la sensazione che il titolare si aspetti che rubi», ha raccontato indignata “Eni” al quotidiano londinese The Guardian. E ancora ribadisce l’ex Chelsea: «Ci sono non poche volte in cui arrivi all’aeroporto e i cani antidroga mi fiutano come se fossi Pablo Escobar...». L’Aluko ammette precisa di non aver subito episodi di razzismo in campo, né dai tifosi delle altre squadre, «ma comunque il problema nel calcio italiano c’è, ed è la risposta a questo che veramente mi preoccupa, dai presidenti ai tifosi del calcio maschile che lo vedono come parte della cultura del tifo».

Una “sottocultura” che addirittura punisce l’atleta, il 37enne portiere senegalese Omar Daffe e il suo club, l’Agazzanese, nel momento in cui solidarizza con il suo tesserato colpito da una grandinata di insulti razzisti sul campo della Bagnolese. Siamo in un campo di dilettanti (Eccellenza emiliana), i più vessati dai soliti idioti - i meno illuminati dalle telecamere che nel terzo millennio usano ancora la violenza verbale dinanzi al colore della pelle di un ragazzo. «Avrei preferito una pugnalata. Mi sono sentito violentato. Ho pianto negli spogliatoi e pensavo di dire addio al calcio. Ma rimetterò i guantoni, non la do vinta a chi in uno stadio non deve più entrarci», l’estrema difesa di Daffe che domenica scorsa, «sfinito» dai classici animaleschi «buu» misti allo «sporco negro» piovuti dagli spalti del Fratelli Campari di Bagnolo, al 27’ del primo tempo ha gettato i guantoni e abbandonato il campo. I suoi compagni di squadra non hanno esitato a fare lo stesso e la gara con la Bagnolese è finita lì. Ma dal danno si è passati alla beffa: la prima, il cartellino rosso a Daffe estratto dell’arbitro inflessibile. In un Paese civile, prima che in un sistema calcistico leale, la norma sportiva dovrebbe andarsi a far benedire. E invece viene applicata alla lettera e la seconda beffa è arrivata con la decisione del giudice sportivo: sconfitta 0-3 a tavolino per l’Agazzanese e un punto di penalizzazione in classifica. E contro la Bagnolese? Nulla, perché le sanzioni previste dall’articolo 8 comma 1 del Codice di Giustizia sportiva sono di fatto sospese dal giudice sportivo che sottopone il club a «un periodo di prova di un anno».

Il razzismo, nonostante il clamore suscitato nelle scorse settimane dal “caso Balotelli”- come Daffe stava abbandonando il Bentegodi dopo gli ululati della Curva dell’Hellas Verona - non è certo un fenomeno esclusivamente italiano. L’attaccante dell’Inter, il nazionale belga di origini congolesi Romelu Lukaku ha appena denunciato alla Uefa l’ennesimo attacco razzista nei suoi confronti accaduto questa volta in Champions, sul campo dello Slavia Praga. «Siamo nel 2019 e certe cose non dovrebbero accadere», lo sfogo di Lukaku che aveva chiesto l’intervento dell’arbitro dopo i cori provenienti «per due volte» dalla Curva degli ultrà praghesi. Ma a quanto pare il direttore di gara, il polacco signor Marciniak, non ha sentito niente. Sordo anche il delegato Uefa, al quale Lukaku lancia il suo appello: «La Uefa deve intervenire perché quasi tutto lo stadio si è comportato bene e non è giusto l’atteggiamento sbagliato di pochi rovini lo spettacolo alle persone perbene, sono un esempio negativo per i bambini». I bambini ci guardano. E lo sanno bene quei genitori dei pulcini dell’Aurora Desio che al fattaccio di razzismo accaduto nella gara contro i pari età della Sovicese (una mamma ultrà che apostrofava ripetutamente con «negro», un piccolo calciatore di 6 anni) hanno reagito, assieme ai loro figli, dando prova di altissimo senso civico. La partita successiva i pulcini del Desio e quelli del Melzo sono scesi in campo con il volto colorato di nero. Da Desio è partita la campagna “Var”, acronimo di «Vietato ai razzisti». Un assist raccolto dal basso, dalla serie D alla Terza categoria lo strumento del Var (moviola in campo) potrebbe essere utilizzato su tutti i campi per neutralizzare i razzisti. «L’unico Var che unisce tutti», proposto dai dirigenti dell’Aurora Desio è arrivato anche sul tavolo del ministro dello Sport Vincenzo Spadafora. Forse questa nuova funzione del Var sarebbe più efficace anche sui campi di Serie A dove anche in questa stagione la solita sporca dozzina - o forse più - razzista, ha sostituito i due massimi “capri espiatori” della passata stagione, i colored francesi Koulibaly (Napoli) e Matuidi ( Juventus), con l’interista Lukaku appunto, Dalbert della Fiorentina, e Kessie del Milan. Il club rossonero, alla vigilia del derby con l’Inter è stata la prima società ad aver varato una task-force interna antirazzista. Sulla scia del Milan si è inserita anche la Roma che per tutelare il suo tesserato, il difensore Juan Jesus, insultato da uno pseudotifoso sui Instagram ha chiesto per il reo «3 anni di Daspo ed una denuncia per stalking».

La tolleranza zero sul fronte dell’antirazzismo ha portato a qualche risultato in Inghilterra, ma in Premier i calciatori c’hanno messo la faccia e la penna, come insegna il “Manifesto Sterling” redatto dall’attaccante giamaicano del Manchester City di Pep Guardiola e pubblicato dal Times. «Sembra da pazzi che nel 2019 ci sia ancora bisogno di scrivere un editoriale su un giornale per chiedere dei cambiamenti radicali per uno sport che amo. Ma lo faccio perché il problema del razzismo nel calcio è grave, profondo e ancora lontano dall’essere risolto», ha scritto Raheem Sterling, diventato un punto di riferimento europeo per i tanti calciatori di colore e quelli appartenenti alle minoranze etniche. Da noi Figc e Aic sono sensibili alla problematica, ma fino a ieri l’unico manifesto antirazzista l’aveva stilato Gariwo (il network della “Foresta dei Giusti” di Monte Stella a Milano) e il suo presidente Gabriele Nissim: la Carta contro l’odio nello sport. Una Carta rivolta a tifosi, giornalisti e agli atleti ai quali Gariwo chiede di aderire e sottoscrivere i punti sanciti dal documento che si rivolge a tutti a partire dai giovani. Specie a quelli che giocano nei campi di periferia e che spesso non fanno notizia quando subiscono aggressioni a sfondo razzista.

E questo purtroppo accade a Nord, all’attaccante italo-nigeriano Raphael Odogwu che milita in uno dei club più solidali e virtuosi d’Italia, la Virtus Vecomp Verona, come a Sud, al suo collega di reparto, l’ivoriano Massimo N’Cede Goh (cugino dell’ex Juventus Kean, ora all’Everton) della Cavese insultato sul campo di Castellammare di Stabia.

«Servono gli esempi», dice il giovane Primavera del Milan Henoc N’Gbesso, figlio di ivoriani che veste la maglia azzurra dell’Under 17, il quale in caso di attacchi razzisti vorrebbe tanto «vedere uscire dal campo tutti i miei compagni di squadra». Il messaggio forte e chiaro dovrebbe arrivare in primis dai grandi campioni. E allora non è stata certo esemplare la scivolata “filo-nazista” di Marco Van Basten che in diretta tv (su Fox) si è lasciato sfuggire il saluto hitleriano, «Sieg Heil!». Il nostro sano e civile “saluto alla vittoria” sarà quando avremo estirpato la radice gramigna del razzismo, a cominciare dai campi di pallone. Nel frattempo, è la stessa “Eni” Aluko che ci invita a non mollare: «Continuate a fare arrivare i talenti in Italia e a farli sentire a casa». Questo, i ragazzi dell’osservatorio antirazzista “Occhio ai media” già lo fanno e lo ribadiscono da Ferrara: «Nel mio Paese nessuno è straniero».

© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI

ARGOMENTI: