lunedì 5 febbraio 2024
Il noto storico dell'arte, già ministro dei beni culturali, si è spento a Firenze all'età di 84 anni. Ha guardato al patrimonio con passione civile. È stata firma prestigiosa di "Luoghi dell'Infinito"
Antonio Paolucci

Antonio Paolucci - Courtesy Musei Vaticani

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In un paese come il nostro in cui tanti, troppi si riempiono la bocca dell’eccellenza del patrimonio culturale per poi svilirlo a scenario da parata o a merce di scambio, c’è davvero da rimpiangere la scomparsa di Antonio Paolucci, avvenuta ieri a Firenze all’età di 84 anni, figura che ha sempre saputo coniugare la straordinaria competenza di storico dell’arte a una altissima visione civile, una fusione resa possibile dalla consapevolezza di cosa significhi davvero la parola “civiltà”.

Lo racconta in modo trasparente il suo curriculum in larga parte come funzionario pubblico. Paolucci, che era nato a Rimini il 29 settembre 1939, è stato Soprintendente a Venezia, a Verona, Mantova, Brescia e Cremona, quindi direttore dell'Opificio delle Pietre Dure di Firenze; nella città toscana, alla quale era rimasto legatissimo sia dal punto vista professionale che umano, Paolucci è stato negli anni Soprintendente per i Beni Artistici e Storici di Firenze, Pistoia e Prato, il primo soprintendente per il Polo Museale fiorentino e infine direttore generale dei Beni culturali per la Toscana. Una presenza, come ha ricordato il neodirettore degli Uffizi Simone Verde, si prolunga ancora oggi: «Antonio Paolucci possedeva la capacità di governare l'arte e il suo mondo, di soprintendere ai suoi delicatissimi equilibri. Le Gallerie degli Uffizi annoverano numerosi dipendenti cresciuti alla sua ombra. In suo onore, l'Auditorium del museo, dove tante volte ha incantato le persone con le sue parole, porterà il suo nome». La qualità del legame con Firenze è testimoniata anche da quanto espresso ieri dall’arcivescovo di Firenze Giuseppe Betori che ha definito Paolucci «uomo di fede che ha aiutato a riscoprire valorizzare il contenuto religioso del patrimonio artistico. La nostra Chiesa deve a lui l’intuizione del sistema dei Musei vicariali, che permettono di mantenere sul territorio opere d’arte che sarebbero a rischio in edifici religiosi non adeguatamente custoditi».
La stessa dedizione Paolucci l’aveva poi portata su una scala nazionale. Dal gennaio del 1995 al maggio del 1996 ricoprì la carica di ministro per i Beni culturali nel governo tecnico di Lamberto Dini, incidendo in modo sostanziale nonostante i soli 18 mesi al governo, nella percezione del patrimonio pubblico e della sua fruizione. A Paolucci vennero affidati compiti delicatissimi anche dal punto di vista dell’attenzione da parte dell’opinione pubblica nazionale: dopo il terremoto che colpì l'Umbria e le Marche nel 1997, venne nominato commissario straordinario del governo per il restauro della basilica di San Francesco ad Assisi, seguendone e agevolandone a ogni passo i lavori. Nel 2018 venne coinvolto anche nel processo di ricostruzione della basilica di San Benedetto a Norcia, semidistrutta dal sisma dell'Italia centrale del 2016.

Impossibile infine dimenticare i nove anni alla guida dei Musei Vaticani, dal 2007 al 2016, dove venne chiamato da Benedetto XVI: un incarico giunto al termine della carriera ma che Paolucci interpretò con un entusiasmo davvero giovanile, indirizzando sempre più i Vaticani nell'ottica di una moderna gestione museale. Barbara Jatta, che gli è succeduta alla direzione, ha ricordato come Paolucci ritenesse «che i musei fossero una complessa e meravigliosa “macchina culturale”, sempre in movimento, dalla mattina all’alba fino a notte fonda». In particolare, Paolucci aveva fondato l’Ufficio del Conservatore dei Musei Vaticani «delineando - prosegue Jatta - una nuova figura professionale e sviluppando quella Manutenzione preventiva che è diventata, grazie alla sua visione, ormai imprescindibile per la gestione del nostro patrimonio culturale». Papa Francesco ha voluto ricordarne il servizio «generoso e competente».

Antonio Paolucci si era laureato a Firenze in storia dell'arte nel 1964 con Roberto Longhi, dopo ampi studi sul Rinascimento, Caravaggio e i caravaggeschi e il Barocco. Aveva scritto su "Paragone", "Bollettino d'Arte", "Arte Cristiana”, pubblicato diverse monografie dedicate Piero della Francesca, Luca Signorelli, Antoniazzo Romano, il Battistero di San Giovanni a Firenze, le Pietà di Michelangelo. In Museo Italia (1998) aveva raccontato la sua esperienza da sovrintendente e da ministro in un libro che nel titolo ricorda da vicino uno dei suoi cavalli di battaglia, l’idea dell’Italia come un grande museo diffuso in cui il patrimonio è distribuito su tutto il territorio. Con lo stesso titolo aveva realizzato una serie di trasmissioni per Rai Cultura, che ne avevano reso ulteriormente familiare la presenza. D’altronde Paolucci incarnava la responsabilità verso il patrimonio culturale forse come prima cosa attraverso la sua divulgazione: soltanto rendendolo accessibile ne avrebbe qualificato davvero la sua dimensione pubblica e comunitaria. Paolucci si è speso moltissimo in questo senso e la stessa Jatta ricorda che «come nessun altro Antonio Paolucci sapeva ammaliare con i suoi discorsi. Ci sono persone che hanno il dono della parola e lui era il re di quella categoria. Chiunque lo abbia ascoltato non può che confermare la sua profonda conoscenza delle cose d’arte ma soprattutto la capacità che aveva di raccontarle, incantando e avvolgendo con le sue parole che uscivano, naturalmente affascinanti, dalla sua bocca». Una missione e una passione civile a cui Antonio Paolucci ha dato corpo anche attraverso la lunga, affettuosa collaborazione con “Luoghi dell’Infinito”, la rivista di arte, cultura e itinerari di Avvenire, di cui era membro del comitato scientifico e le cui pagine aveva frequentato assiduamente per 15 anni, firmando per lunghi tratti in quasi ogni numero.

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