martedì 4 dicembre 2018
Un volume che è da oggi in libreria propone l'acuta e provocatoria riflessione dell'arcivescovo presidente della Pontifica accademia per la vita sul valore dell'esistenza e sul senso della morte
Paglia: oltre la vita è sempre vita, perché la vita è per sempre
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«Perché questo spreco?» (Mt 26, 8b). Considerando l’esuberanza della vita umana e i valori senza prezzo che essa porta nel mondo, il tema della morte meriterebbe un trattamento più serio e solidale di quello che le riserviamo. La frase che abbiamo ricordato all’inizio è tratta dal racconto evangelico noto come “L’unzione di Betania”, quando «una donna» (ma Giovanni dice «Marta», la sorella di Lazzaro, l’amico che Gesù aveva risuscitato) versa olio profumato, molto costoso, sul capo di Gesù, che sta per essere catturato e messo a morte. I discepoli protestano (Giovanni dice che la protesta viene da «Giuda» il traditore, che teneva la cassa e rubava). Il balsamo poteva essere venduto a un prezzo molto alto, ricavandone denaro per i poveri. Gesù si preoccupa dell’umiliazione della donna: «Perché la infastidite?». La donna ha compiuto un gesto d’amore contro l’orribile spreco della vita che siamo abituati a riconoscere alla morte. La donna ha compiuto una azione buona verso di me, spiega Gesù, in vista della mia sepoltura. In altri termini, ha messo un segno di legame, che non vuole essere spezzato, fra una vita generosa di bene e l’amore che ne ha ricevuto e amato i doni. Il vero spreco è la morte, semmai, non l’unguento. Dobbiamo batterci contro la rassegnazione a questo spreco.

Con la nostra vita, entra nel mondo una promessa della vita – e sulla vita – che noi possiamo onorare soltanto in minima parte, se ci pensiamo bene. Per quale ragione apparirebbe così tanto amore, di quello che non ha niente a che fare con il denaro e con il godimento, per essere poi semplicemente tradito dallo spegnersi di un interruttore che lo precipita nel nulla, come se nulla fosse stato? Quale natura evolutiva sarebbe così stupida con sé stessa? Per quale ragione saremmo così appassionati – e pronti al sacrificio – per la giustizia di una vita che non è la nostra, se la morte, come un colpo di spugna, riducesse al nulla tutte le orribili efferatezze della storia individuale e collettiva: come se nulla fosse stato? Di fronte alle enormi masse di ingiustizia rimasta senza umana redenzione, quale viltà ci farebbe accettare la morte come una sanatoria? Per non parlare delle opere della bellezza, dell’intelligenza, della convivenza, che scrivono su questo pianeta una storia della vita dalla quale anche le divinità create dai sogni o dagli in- cubi dell’uomo hanno da imparare. Ebbene, sì, noi siamo misteriosamente capaci di sacrifici impensabili e senza prezzo per dare vita alle opere che rendono amabile – e non solo godibile – la vita comune. L’ottusa singolarità iniziale del Big Bang poteva mai saperne qualcosa, di tutto questo?

Vincenzo Paglia, in questo libro incalzante e appassionato ( Vivere per sempre, L’esistenza, il tempo e l’Oltre, Piemme, pagine 198, euro 17,50, da oggi in libreria) ci provoca. Non parliamo abbastanza di ciò che, nella vita che riceviamo e dobbiamo interpretare, non giustifica la morte come fine di tutto. E di ciò che non si lascia giustificare dalla morte, come rivincita del nulla. La fede nella risurrezione di Gesù – non la rianimazione del suo cadavere, ma l’ingresso della sua stessa condizione umana nel mondo delle cose invisibili che forma il valore aggiunto della creazione di Dio – trafigge la mente dell’umanità intera: nessuno aveva mai osato lanciare un simile annuncio dell’importanza della vita che viviamo, nella carne e nel sangue. Gli stessi credenti appaiono un po’ meno appassionati per questa scommessa della fede contro la morte, che dovrebbe riaccendere complicità – fra gli esseri umani – almeno sulla necessità di non trasmettere alla generazione che viene il virus del nichilismo. Il virus è trasmesso da portatori apparentemente sani (sta qui la sua insidia). I figli della società del benessere vengono ammoniti a pensare molto razionalmente la morte come buco nero, e contemporaneamente incoraggiati a riempire la vita di beni deteriorabili: l’idea infatti è che non ce ne sono altri, né questa vita, né in una qualsiasi altra.

In questa prospettiva, è difficile scegliere se dobbiamo indignarci per l’ipocrisia che dissimula ai nostri figli l’interrogativo sulla serietà della condizione mortale o scandalizzarci per l’ingenuità che li vuole stupidi sulla vita reale. In realtà, suggerisce Paglia, la morte è un «passaggio» già per la nostra mente: mette alla prova la sincerità del nostro attaccamento «interiore» alla vita. Se la morte fosse la semplice naturalezza del niente (che ha esaurito i suoi effetti speciali) da dove mai sarebbe uscita la vita che scommette contro la sua cinica giustizia omologatrice? E perché insegnare ai bambini l’onore della parola data e l’amore del prossimo? (Naturalmente, c’è già chi sostiene la scorrettezza politica dell’etica). Per questo la nostra testimonianza a riguardo del «passaggio » della vita, di fronte alla morte, si decide qui e ora. Quale che sia la tua visione del mondo, che cosa insegni ai bambini a riguardo del passaggio della vita e del passaggio della morte? Quali sono i beni che resistono alla morte, e quindi valgono più di tutti per dare speranza al riscatto e alla continuità della vita, individuale e collettiva? L’onestà intellettuale dell’intelligenza planetaria deve ritrovare complicità sulla cura di queste domande sollevate dalla vita mortale. La religione stessa scommise contro la morte per prima e sin dall’inizio: non nacque affatto dalla paura della morte (che, semmai, culturalmente parlando, è un’ossessione moderna, alimentata dai piccoli padreterni di complemento).

Noi siamo migliori di questi trucchetti da cultura post-secolare. E possiamo ritornare a essere più leali con le generazioni che vengono a riguardo della promessa contro la morte che è contenuta nella vita creata da Dio: che noi trasmettiamo, meglio che possiamo, senza averla minimamente potuta inventare. Oltre la morte, c’è più vita di quella che si trova scritta nei nostri trattati e nei nostri alambicchi. Il vangelo di Gesù la chiama Regno di Dio. E dice che questo Regno è già qui, nel momento stesso in cui sta arrivando il tempo inarrestabile del suo «passaggio» al compimento. Esso viene per tutti, credenti e non credenti. Tutti devono passare di lì. Possono ben ritrovarsi, dunque, sulla necessità di non ostruire il passaggio, fintanto che cercano la porta. Per i loro figli, almeno, se non per loro.

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