
Lo scrittore spagnolo Javier Cercas, ospite a Torino con “Il folle di Dio alla fine del mondo” - Yuma Martellanz
Partiamo dalla fine: incontro Javier Cercas nella hall del suo albergo durante i giorni del Salone del Libro. Dopo una lunga intervista gli domando come si accetta di fare un libro come il suo da non credente. È una bella sfida, gli dico. La sua risposta è: «Come avrei potuto non farlo? Per la prima volta la Chiesa ha aperto le porte a uno scrittore per parlare con la gente, per entrare in Vaticano. Come dire di no?». Il libro in questione è Il folle di Dio alla fine del mondo (Guanda, pagine 462, euro 20,00) e Cercas aggiunge: «È stata un’opportunità straordinaria, unica. Si tratta di un’istituzione fondamentale degli ultimi duemila anni. Tutti gli imperi sono crollati, ma la Chiesa è ancora lì. Che cosa succede lì dentro? Come non esserne interessato? Sono ateo, non sono stupido. Era necessario andare a vedere, ascoltare». E qui ci racconta una piccola parte di tutto questo.
Qual è il ruolo che dovrebbe avere il cattolicesimo nella cultura contemporanea?
«Prima di tutto il cattolicesimo non deve avere paura. Credo che talvolta sia un po’ sulla difensiva. E poi credo che la Chiesa e i cattolici abbiano un problema linguistico. Il linguaggio della Chiesa e, dunque, dei cattolici, a volte è criptico, come quello di un gruppo chiuso. Quando si parla delle parole del papato di Francesco, c’è per me una parola fondamentale, che dice tantissimo della “rivoluzione” di Francesco, ed è sinodalità. Ma la parola sinodalità non la capisce nessuno. Neanche i cattolici, credo. Questo è un problema, perché così ci si arrocca e si discute di cose che nessuno capisce. E poi c’è un altro problema: è un linguaggio vecchio. Non interessante. Ossidato. Si dicono le stesse cose con le stesse parole. E noi scrittori sappiamo molto bene che si finisce spesso a dire le stesse cose, ma si devono dire in altre forme, si deve trovare il modo per farlo. Si deve parlare dell’amore, della bellezza, ma con un linguaggio attrattivo, forte, ironico. Ironico nel senso dell’umorismo, che è una forza enorme e raramente la associamo al cattolicesimo».
C’è qualche scrittore cattolico che le viene in mente capace di far uso di umorismo?
Chesterton. Kafka diceva una cosa geniale di Chesterton: è così divertente che sembra abbia visto Dio. Era il senso dell’umorismo che lo rendeva attrattivo. Quando pensiamo al cattolicesimo, invece, spesso pensiamo a qualcosa di difensivo, solenne, prevedibile.
In questo senso Francesco ha cambiato il linguaggio, no?
Ho visto Spadaro in questi giorni al Salone e mi ha dato l’ultimo suo libro che si chiama Viva la poesia, ovvero viva un linguaggio nuovo. E lui dice esattamente questo. La Chiesa ha bisogno di un linguaggio nuovo. Nel mio periodo al Vaticano per il libro continuavo a ripensare a una frase di Cioran che dice più o meno così: “Tutta la religione è una crociata contro il senso dell’umorismo”. Per me questo è catastrofico, perché il senso dell’umorismo è una forma di intelligenza. Infatti è la cosa più seria del mondo. E non lo dico io, lo diceva Cervantes.
In Francesco ha trovato umorismo?
Ho trovato un uomo che fa una rivendicazione radicale del senso dell’umorismo. Lucio Brunelli, uno dei suoi amici – l’ho scritto nel libro – un giorno mi ha detto una cosa che non avevo mai letto o sentito prima su una cosa straordinaria che un giorno Francesco gli ha detto: “La cosa più prossima alla grazia divina è il senso dell’umorismo”. Quando qualcuno ride si capiscono molte cose. Ridere è una forma di conoscenza profonda, la più prossima alla grazia divina.
Qual è, secondo lei, l’eredità culturale che ci lascia Francesco?
Per me l’eredità più importante è religiosa. Io in questo libro ho voluto sottolineare che il Papa è il Papa perché è un leader religioso. Ha una dimensione politica, culturale, tante dimensioni, ma quella che prevale e deve prevalere è religiosa. La dimensione politica è completamente sopravvalutata. Si è parlato di un Papa rivoluzionario. Dipende dal senso della parola rivoluzionario. Se vuol dire che ha cambiato la dottrina cristiana, la risposta è no. Ma se rivoluzionario vuol dire la volontà di ritornare alla Chiesa di Cristo, allora sì. Ma questa per me non è una rivoluzione di Francesco. È la rivoluzione che la Chiesa vuole fare dal Concilio Vaticano II.
Per lei Francesco ha portato a compimento la “rivoluzione”?
Credo di no. Una cosa che non si capisce fuori dalla Chiesa è che il Papa non può fare tutto.
E quanto ha fatto?
Forse un 3% di quello che voleva fare, ma non sappiamo dove volesse arrivare. È stato un Papa che andava più veloce della Chiesa. È stato disruptivo. C’è chi dice “rivoluzionario senza rivoluzione”, ma credo che la Chiesa abbia bisogno di molti altri papati in continuità con la sua visione per cambiare.
Leone XIV è in continuità?
A me sembra evidente. Forse proprio per questo motivo, per cercare di proseguire quel lavoro. Dopo la morte di Francesco si è detto – almeno secondo l’analisi che ho visto nei mezzi di comunicazione – che il mondo avrebbe vissuto un momento di controrivoluzione, un momento reazionario, l’altra parte del pendolo. E allora si è detto: la Chiesa, con la sua intelligenza geostrategica di duemila anni, farà la stessa cosa e sceglierà un Papa molto più vicino a questa controrivoluzione. E io pensavo: questo non è così facile. Io non sono un indovino, non sono un vaticanista, ma non lo vedo così facile. E alla fine infatti il nuovo Papa è un uomo di Francesco. La strada è la stessa.
Nel libro parla con Tornielli del rapporto tra media e fede. Qual è la sua visione della relazione tra questi temi?
Quando si parla della Chiesa, quando si parla di Francesco, si tende a parlare più di politica che di religione. Questo è un paradosso, perché il Papa non ha un potere politico. È vero che papa Francesco aveva una visione politica del mondo, ma se ne sovrastima il potere politico. Faccio un esempio semplice: il nuovo Papa ha detto “basta guerra” e io sono molto contento. Credo debba dirlo. Ma quante guerre ha fatto finire una frase del Papa? Nessuna. Se Putin dice “torniamo a casa” invece finisce la guerra. Questa è la differenza tra un politico e il Papa. Credo questo però dipenda dai media, perché spesso pensano la religione non sia interessante, o non ne sanno molto. Allora non ne parlano e finiscono per parlare d’altro. Invece una delle sfide di questo libro è parlare di cose come la fede, la risurrezione della carne, la vita eterna, e dimostrare che si può parlarne.
Dopo questa esperienza è cambiato qualcosa per lei?
La mia visione del mondo è cambiata completamente. Un libro che non è capace di cambiare te, non può cambiare il lettore. Alla fine, è questo che vuole la letteratura. La letteratura è un’avventura. Un’avventura ti cambia. Se non ti cambia, non è un’avventura. La letteratura è piacere, prima di tutto. Ma dopo, è una forma di conoscenza. E una conoscenza che non ti trasforma, non è conoscenza. Quindi sì, ha cambiato la mia visione. Di tutto: di Francesco, della Chiesa, del Vaticano, di me stesso. Tutto è molto più complesso.
Se dovesse scrivere ancora su una figura religiosa, chi sceglierebbe?
Forse Francesco d’Assisi. Oppure una figura come Pietro, che ha tradito tre volte. Lui è interessante, perché il cristianesimo è per i peccatori, per i normali, per chi ha paura.