Lo Stretto di Messina? È una questione culturale

Costruire l’infrastruttura di un ponte può sembrare un atto di progresso. Ma custodire una distanza può essere un atto di civiltà
August 16, 2025
Lo Stretto di Messina? È una questione culturale
Ansa / Alamy Stock Photo | Veduta satellitare dello Stretto di Messina
Il Mediterraneo è un mare di fratture che uniscono: da Gibilterra al Bosforo, dai Dardanelli a Suez, le sue “soglie” collegano continenti mentre li separano. Lo Stretto di Messina, al centro di questa costellazione, è tra i più enigmatici. Oggi è tornato oggetto di discussione perché il 6 agosto il Comitato interministeriale per la programmazione economica e lo sviluppo sostenibile ha approvato il progetto definitivo del collegamento stabile tra la Sicilia e la Calabria.
In realtà il ponte sullo Stretto è stato, per decenni, una figura retorica prima ancora che un progetto ingegneristico. Non è mai appartenuto soltanto ai dossier tecnici: ha abitato i discorsi politici, le cronache giornalistiche, persino le conversazioni da bar, oscillando tra promessa di modernità e simbolo di incompiutezza. E il discorso sembra essersi rinchiuso nei dettagli tecnici delle magnifiche sorti e progressive, per citare Leopardi.
È invece il momento opportuno per richiamare la sensibilità geografica dello Stretto, che ha radici storiche profonde. Gli antichi Greci, sbarcando a Zancle – l’attuale Messina – trovarono qui un accesso verso altre rotte mediterranee. I Romani lo trasformarono in un passaggio strategico per le legioni, e nei secoli arabo-normanni lo Stretto divenne porta di culture miste: la lingua si arricchì di suoni nuovi, la cucina di spezie lontane, l’architettura di archi e decorazioni che parlavano di mondi connessi. La cultura dello Stretto è intessuta di miti e letteratura. Una leggenda geologica vuole che Sicilia e Calabria fossero un’unica terra, divisa da un cataclisma: eco del mito platonico degli esseri originariamente uniti e poi separati, condannati a cercarsi. Qui, però, la separazione è anche condizione vitale: lo scambio nasce dalla distanza.
Gli scrittori dello Stretto hanno raccontato questo doppio respiro. Ma bisogna sempre tornare a Omero che vi colloca Scilla e Cariddi, figure della paura e della necessità di attraversare. Nell’Odissea, Omero canta lo Stretto come luogo di pericolo estremo: Ulisse deve passare tra Scilla e Cariddi, rischio mortale su entrambi i lati. Egli stesso racconta l’orrore di quel passaggio tormentato: «Così, tra i lamenti, attraversammo lo stretto: / da una parte c’era Scilla, dall’altra la divina Cariddi / che inghiottiva orribilmente l’acqua salata del mare. / Quando la vomitava, essa gorgogliava fremente, / come un paiolo sotto un grande fuoco; dall’alto / cadeva schiuma sulla cima di entrambi gli scogli. / Ma quando risucchiava i flutti del mare salato, / tutta dentro ribolliva vorticosa…» (Libro XII). Chi oggi si bagna in quelle acque può vedere in certe ore pomeridiane le stesse immagini omeriche.
Lo Stretto è soglia pericolosa: un luogo di passaggio angusto che mette alla prova l’uomo di fronte all’ignoto e alla morte, in cui il confine tra sicurezza e abisso si fa sottilissimo. Anche Enea, nel libro III dell’Eneide, conosce la fama terribile di queste acque, che Dante, nell’Inferno (canto VII), riecheggia: paragona le anime dei prodighi e degli avari che cozzano nel fango a due onde contrarie infrantesi presso Cariddi. Lo Stretto è metafora di un clash, di caos conflittuale. Eraclito, filosofo del divenire, vi avrebbe trovato l’illustrazione perfetta della sua armonia tra opposti.
A differenza di altri attraversamenti simbolici (dove l’alterità resta invisibile o astratta), qui l’altro-da-sé è immediatamente visibile, concreto, tangibile fin nei dettagli. Da ciascuna sponda dello Stretto, infatti, l’alterità non è un orizzonte remoto e indefinito, ma un luogo vicino, riconoscibile, quasi familiare: si scorgono le forme delle case sull’altro lato, il passaggio delle automobili, il movimento quotidiano delle persone, persino le luci che si accendono e si spengono nelle stanze sull’altra costa. L’“altro” è letteralmente di fronte a noi, a portata di sguardo, e tuttavia resta separato dall’acqua. Vicinanza e distanza coesistono: la distanza tra le due rive è minima; eppure, ineliminabile; la vicinanza è tangibile eppure, senza lo sforzo di un attraversamento, resta irraggiungibile.
Lo Stretto rende manifesta la relazione costitutiva tra identità e alterità: ciascuna riva definisce sé stessa anche attraverso la presenza dell’altra. Secoli di scambi hanno fatto sì che la Sicilia porti in sé l’impronta del continente e viceversa la Calabria abbia assorbito un’anima siciliana. Le due rive, proprio nel loro distacco, si definiscono a vicenda. In questa luce, lo Stretto diventa un confine “impuro”, una cornice che unisce separando, un traffico di significati reciproci più che una barriera netta.
Il traffico è poi anche da intendersi nel senso più letterale: tra i due volti di terra che si fronteggiano, i traghetti solcano incessantemente le acque in un moto pendolare e reciproco, un continuo andirivieni unisce le due sponde. Chi attraversa queste acque si trova sospeso tra due mondi e il suo sguardo diviene un osservatorio privilegiato: dal ponte del traghetto abbraccia in un solo colpo d’occhio il volto di entrambe le coste, vede la terra che si allontana e quella che si avvicina, e porta con sé il ricordo di una riva e l’attesa dell’altra. Nel rito quotidiano del traghettare, il viaggiatore moderno diventa un ponte vivente tra due terre: il suo sguardo tocca simultaneamente i due orizzonti, riconoscendo in ciascuno la presenza dell’altro.
In un’epoca ossessionata dalla connessione totale, lo Stretto insegna che non tutte le distanze vanno azzerate, perché in esse vive la possibilità dell’incontro autentico. Costruire l’infrastruttura di un ponte può sembrare un atto di progresso; ma custodire una distanza può essere un atto di civiltà. Lo Stretto, con il suo mare di mezzo, è un’architettura perfetta: una che non unisce per fondere, ma per tenere in dialogo.
Resta il fatto che il ponte sullo Stretto di Messina è diventato un’icona nazionale. Ogni sua evocazione attiva un immaginario stratificato: l’Italia che si unisce, il Sud che si riscatta, l’orgoglio ingegneristico, ma anche la nostalgia di un tempo in cui i progetti erano più grandi della realtà che li poteva contenere. Negli anni del boom economico, il ponte era un’icona di progresso lineare: la struttura che avrebbe finalmente “colmato un ritardo” e “portato il Sud in Europa”. Negli anni delle crisi e delle disillusioni, invece, è diventato un topos ironico, un esempio lampante di annuncio senza realizzazione, un’ombra ciclica che riemerge a ogni stagione elettorale.
In entrambi i casi, l’oggetto reale – un ponte di acciaio e cemento – è rimasto secondario rispetto alla sua potenza simbolica. Se nelle prime narrazioni il ponte era una promessa di unità – due terre finalmente congiunte, come mani che si stringono –, col tempo è maturato un sospetto: che unire fisicamente possa significare, in realtà, perdere qualcosa. Non più solo progresso e collegamento, ma cancellazione del “mare di mezzo” che per secoli ha definito vite, storie e culture. Questa inversione di prospettiva è significativa. Mostra che l’immaginario contemporaneo si è evoluto: non è più dominato dall’idea di eliminare le distanze, ma inizia a interrogarsi sul valore delle distanze stesse. A volte i ponti possono essere muri.
In questa prospettiva, la questione tecnica diventa secondaria rispetto alla questione culturale, che appare trascurata e forse umiliata: se perdiamo il senso e il “genio del luogo” cancelliamo la forza della cultura e delle identità. I progetti di ponte sullo Stretto incarnano l’impulso a risanare artificiosamente lo strappo con una protesi impoetica che riduce l’alterità, annullando il senso stesso di quel tratto di mare, cancellandolo. Lo Stretto di Messina, con la sua alterità visibile e irriducibile, con il suo traffico reciproco e la sua memoria mitica, ci insegna che qualunque forma di collegamento tra le sponde deve rispettare la distanza che attraversa.

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