L'eredità di Alexander Langer, profeta di pace
Trent'anni fa la morte: dall’ecologia alla lentezza necessaria, fino al tema della convivenza tra popoli, l'eredità del pensiero del politico e intellettuale col tratto della gentilezza

L’8 giugno 2005, quindi circa 20 anni fa, su queste pagine pubblicavamo stralci di un’intervista rilasciata da Alex Langer nel dicembre del 1994 a Massimo Tesei e Gianni Saporetti, poi apparsa sul numero 37 della rivista “Una città”. Occupandomi del nuovo libro dello scrittore e saggista Alessandro Raveggi – Continuate in ciò che è giusto. Storia di Alexander Langer (Bompiani, pagine 230, euro 17,00) – a proposito di uno dei leader dell’ambientalismo etico, sono andato a rivedere quell’intervista per avere conferma della straordinaria attualità e modernità del pensiero di Langer. Così mi sono imbattuto in un’idea attualissima di conversione ecologica e nuova lentezza intesa come diritto al rallentamento, in una società già all’epoca tutta presa dal pensiero unico della velocità, figurarsi oggi; una società invischiata già allora in una mercificazione considerata come trasformazione della vita in prodotto, proprio come oggi; che cosa sono, d’altra parte, il culto dell’immagine, la passione narcisistica, il meccanismo di ricerca ossessiva di conferme proposte dal mondo dei social network, se non la vendita di un prodotto? Invece «Alex – scrive Raveggi –, fin da ragazzo ricercava a tutti i costi un antidoto contro il narcisismo».
Riscoprire Langer perciò ancora oggi ci invita a riflettere su che tipo di umanità vogliamo costruire (e qui il plurale “vogliamo” è fondamentale, proprio per non ripiegarci e arroccarci sull’Io), appellandosi non solo al concetto di “freno” per rallentare, ma alla difesa più profonda della dignità che è integrata in quel rallentamento. Langer esorta un pensiero di libertà e bellezza intrinseca della vita umana, nella sua diversità e imprevedibilità, proponendosi quasi inavvertitamente come promotore di un dialogo vasto, aperto, a volte in ascolto di esperienze radicali, altre volte procedendo con la disposizione d’animo del visionario inquieto.
Questo importante punto di partenza – a mio avviso – aiuta a inquadrare il lavoro di Raveggi, che a trent’anni dalla scomparsa del giornalista e pacifista di formazione cattolico-sociale, ripercorre di fatto non la storia biografica in senso stretto del politico e saggista (o almeno non solo), ma la storia di un profeta, insieme disperato e pieno di speranza, che ha creduto nella possibilità di un’umanità multilingue (in senso lato) e capace di valicare muri e frontiere.
Un profeta per l’attitudine a credere che «il mondo lo si prende in prestito» non dalle generazioni passate – con cui dovrebbe invece avvenire una rottura – ma «dalle generazioni future». E qui c’è un passaggio di Raffaele Capoano, ex allievo romano di Langer, che Raveggi riporta, utile a comprendere quanto poco frequentemente Langer adottasse atteggiamenti paternalisti: «Ci assecondava - dice il testo -, ma non ci ha mai detto o suggerito cosa dovessimo fare… come al solito “fiancheggiava”, nel senso che se tu eri intenzionato a fare qualcosa, lui ti stava a sentire, al limite cercava di non farti fare proprio la cosa più sconsiderata, però non ti diceva mai che non la dovevi fare». Un atteggiamento aperto, quindi, che sapeva «muoversi tra le righe».
Era un profeta per come parlava di guerra, anzi di pace: «Liberarsi dalla guerra – diceva nel 1988 –, dal militarismo, dalla distruzione ecologica, dall’incombere dell’apocalisse civile o militare che sia. Non è solo un imperativo – continua – per chi vuole che i nostri figli o nipoti possano ancora vivere o per chi ama i popoli lontani. Non è solo questione dei generosi, per capirci meglio». No, ha ragione, è una questione che ci riguarda tutti, allora come ora. Con la parola “tutti” torniamo a quel concetto di operazione collettiva di cui sopra, che Raveggi chiama «compito collettivo», insistendo in questo modo sulla concretezza - “compito” -, quindi sulla non astrattezza di un pensiero che è anche «messaggio di salvezza terrena come politica attiva».
C’è anche, nel libro di Raveggi, una riflessione più celata, che prende le mosse dalla sua biografia di ragazzo nella campagna toscana. Una riflessione su cosa possa significare a inizio anni Novanta, per un ragazzo del liceo, andare in edicola e acquistare una copia di “Cuore”, trovando su quelle pagine una lettera di Langer sull’ecologismo catastrofico e la necessità di progetti etici, politici, culturali, facendo «intravedere l’alternativa di una società più equa e più sobria, compatibile coi limiti della biosfera e della giustizia, anche tra i popoli», scriveva.
Il finale del libro va incontro a una serie di interrogativi «onerosi e un po’ astratti», come per esempio: «Dove troviamo ancora la forza di fare? Dove non solo assistiamo inerti e spossati agli eventi? Dove sei, Alex?», cui seguono una lista di insegnamenti di Langer, anche detti «istruzioni per il nuovo secolo che stiamo vivendo, anni di ansia e di guerra». Ne riporto due sugli altri, poiché indicative: il primo è «essere affettuosi», predicando questo affetto «sotto forma di solidarietà, benevolenza, pace tra tutti i popoli»; il secondo è «provare a convivere almeno una volta nella vita con un profugo o un rifugiato», poiché «siamo tutti profughi di un pianeta spiantato, di un globo affranto».
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