giovedì 14 febbraio 2019
Ho capito che tutto andava bene, e che dunque non mi dovevo preoccupare, la prima volta che Camilla, la più piccola delle mie figlie, ha dovuto darmi da mangiare. Ha iniziato a imboccarmi tutta seria e attenta, ma dopo due minuti era lì che faceva l'aeroplanino con la forchetta, come facevamo con lei da piccola (come tutti i genitori del mondo fanno con i loro figli), e siamo scoppiati a ridere insieme, e non ci fermavamo più. Tutto normale. Soprattutto nella mia testa. Perché è inutile nascondersi che, con la malattia e lo sconvolgimento conseguente che ha portato, la cosa più difficile con cui tornare a sintonizzarmi è stato proprio il mio essere padre.
Quando mi è stata diagnosticata la Sla, Giulia aveva 29 anni, e Camilla 20. Non due bambine, insomma, tant'è vero che quasi sempre anche loro sono state presenti alle visite di controllo, così come sono state coinvolte in ogni decisione riguardante la mia situazione (insieme, per esempio, abbiamo parlato anche dell'opportunità o meno
di scrivere questa specie di diario). Ciò detto, tuttavia, per un papà le figlie restano sempre piccole. Due batuffoli da proteggere e coccolare. E quando, un giorno, capita che ti rendi conto che non sei fisicamente in grado di fare né una cosa né l'altra, in qualche modo ti senti di non poter essere più pienamente padre. E non solo perché la malattia ti ha lasciato esposto in tutta la tua fragilità, quanto piuttosto perché sei proprio tu che non ti senti più "all'altezza". Non è, in altre parole, solo la consapevolezza – che prima o poi ogni padre raggiunge – di non essere più l'"eroe" delle sue figlie, ma solamente una persona come le altre, con pregi e difetti; è il sentirti privato di una parte di te che, a ben vedere, è stata la più importante. Una sensazione terribile, che spesso mi impediva persino di guardare le mie figlie negli occhi, quasi vergognandomi di non poter più essere quello che loro forse si aspettavano. Fino al giorno in cui Camilla, con la forchetta, si è messa a fare l'aeroplanino. E allora ho rivisto tutti i loro gesti, i loro sguardi, i loro sorrisi degli ultimi mesi. E ho capito.
Quand'era in quarta o quinta elementare, Giulia mi dedicò una poesia. L'aveva titolata «La noce», e in essa mi paragonava, appunto, a una noce. Finiva così: «E io lo so che anche tu, prima o poi, cadrai. Ma io ti raccoglierò e ti rimetterò sul tuo albero». Ecco, va tutto bene. Perché sono di nuovo sul mio albero. Mi ci hanno rimesso sopra le mie figlie. E ci sto davvero bene.
(10-Avvenire.it/rubriche/slalom)
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