giovedì 18 novembre 2004
L'uomo è un prigioniero che non ha il diritto di aprire la porta della sua prigione e fuggire.Sono diversi i significati di questa frase del Fedone di Platone, celebre filosofo greco. Noi ci fermiamo su quello più immediato, la condanna del suicidio: non per nulla Socrate in quel dialogo va incontro serenamente alla morte inflitta da altri, ma non la vuole accelerare con quel gesto che, invece, secoli dopo compirà Seneca, lo scrittore latino condannato a morte da Nerone. Certo è che dobbiamo avere sempre rispetto del dramma interiore di chi si toglie la vita. La Bibbia stessa è estremamente sobria quando racconta queste tragedie: la descrizione del suicidio del re Saul o di Giuda, il traditore di Gesù, è affidata solo a una frase secca ed essenziale («Saul prese la spada e vi si gettò sopra" Giuda si allontanò e andò a impiccarsi»).Rimane, comunque, il monito di Platone e quello di tutte le religioni che considerano trascendente la vita e condannano chi con spregio ostentato (si pensi, ad esempio, alla "roulette russa") o per sfida (deliberato consilio, si diceva nel linguaggio morale latino tradizionale) si toglie la vita. Ma dobbiamo riconoscere che questa, per fortuna, è un"eccezione. Spesso si evade dalla vita per debolezza, per vuoto intimo, per estrema disperazione, per stravolgimento mentale. In quell"istante solo Dio può giudicare e forse lasciare alla sua creatura uno spiraglio di luce e di pentimento salvifico. Noi dobbiamo solo affidare a Lui il suicida ed essere vicini alla immensa desolazione dei familiari.
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