sabato 14 marzo 2020
Una piazza San Pietro così deserta di domenica a mezzogiorno, come domenica scorsa, non s’era mai vista. Piccoli, radi gruppetti di fedeli, distanziati gli uni dagli altri, a guardare non la finestra della biblioteca privata del pontefice, ma i maxischermi sulla piazza. Perché domenica scorsa il Papa non si è affacciato. Allineandosi alle precauzioni suggerite dalla necessità di non creare condizioni che possano favorire la diffusione del coronavirus, Francesco ha cancellato tutti gli appuntamenti che prevedano assembramenti di persone. Niente Angelus, appunto, niente udienze, niente messe pubbliche... Niente del tutto a contatto diretto. Tutto via etere e, in streaming, su internet. Una situazione un po’ surreale, perché un Angelus così, «con il Papa ingabbiato nella Biblioteca», come ha detto lo stesso Francesco, non s’era mai visto nei sessantasei anni trascorsi da quando, nel 1954, Papa Pacelli introdusse nella sua agenda questo appuntamento domenicale. È capitato che siano “saltati” per le condizioni di salute dei pontefici, basti pensare alle molte volte che Giovanni Paolo II ha dovuto dare forfait in occasione dei suoi undici ricoveri in ospedale, ed è anche da ricordare la volta che, sempre papa Wojtyla, nel 1996 dovette interrompere la preghiera e ritirarsi per un attacco di nausea causato dall’appendicite infiammata. Ma, appunto, come detto quanto è successo sette giorni fa non ha precedenti: “Applichiamo disposizioni preventive per evitare la trasmissione del virus... Ma io vi vedo, vi sono vicino». Francesco ha quindi voluto ringraziare e assicurare la propria «vicinanza» nella preghiera «alle persone che soffrono per l’attuale epidemia di coronavirus e a tutti coloro che se ne prendono cura. Li ho ricordati molto in questi giorni di ritiro», in unione con i «miei fratelli vescovi nell’incoraggiare i fedeli a vivere questo momento difficile con la forza della fede, la certezza della speranza e il fervore della carità». La Quaresima, ha concluso prima di affacciarsi per un attimo alla finestra per porgere «un po’ in tempo reale» un saluto ai presenti in piazza, «ci aiuti a dare un senso evangelico anche a questo momento di prova e dolore». Quanto avvenuto a partire da domenica scorsa – e che proseguirà fino a quando sarà necessario – è uno stravolgimento delle consuetudini doveroso, sicuramente, in un momento in cui viene chiamata in causa una responsabilità dei singoli e collettiva alla quale la Chiesa, nel suo insieme, non può certamente sottrarsi. E che anzi, in qualche modo, ha perfino anticipato la “stretta” ulteriore che sarebbe arrivata qualche giorno dopo dalle autorità civili. Un atteggiamento ribadito dal comunicato emesso mercoledì 11 marzo dal cardinale Peter Kodwo Appiah Turkson, prefetto del Dicastero per il Servizio dello sviluppo umano integrale, nel quale tra l’altro viene sottolineato come «per casa ciascuna persona, credente o non credente, questo è un tempo propizio per comprendere il valore della fratellanza, dell’essere legati l’uno all’altro in un modo indissolubile; un tempo nel quale, nell’orizzonte della fede, il valore della solidarietà, il quale sgorga dall’amore che si sacrifica per gli altri, “ci aiuta a vedere l’altro – persona, popolo, o Nazione – non come uno strumento qualsiasi [...], ma come un nostro simile... Il valore della solidarietà necessita altresì di essere incarnato. Pensiamo al vicino di casa, al collega di ufficio, all’amico di scuola, ma soprattutto ai medici e agli infermieri che rischiano la contaminazione e l’infezione per salvare i contagiati». In questa congiuntura, insomma, è emerso con tutta evidenza una volta di più come la Chiesa sia nel mondo e per il mondo. Senza riserve né eccezioni. Sempre, ogni giorno, e per sempre.
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