Scienziati, a quando la fase autocritica?
venerdì 10 luglio 2020
La nostra attuale condizione di esseri umani, di cittadini, di «coscienze libere e responsabili», di prestatori d'opera del più vario tipo, implica una tale quantità di problemi da indurre sempre più facilmente nella tentazione di rinunciare a capire. Nel nostro mondo e nel nostro modo di vivere, sono sempre meno le cose che davvero capiamo. Così la nostra presunta libertà di coscienza si trova a dover agire attraverso una coscienza poco e sempre meno consapevole. Siamo singoli individui disarmati non solo quanto a potere, ma anche quanto a sapere. La dimensione delle strutture o macchine organizzative dominanti dentro le quali viviamo, il cui funzionamento ignoriamo e i cui scopi non possiamo discutere, è una dimensione così enorme e schiacciante che neppure gli intellettuali e gli studiosi riescono a farsene un'idea precisa e adeguata. Gli stessi intellettuali, scienziati e studiosi di vario genere, sono un prodotto di tali strutture: il loro reddito e la loro identità sociale, il loro amor proprio e la loro sopravvivenza dipendono da imprese e istituzioni che modellano a loro immagine la cultura, le scienze naturali, le scienze sociali, i tipi di agire sociale legittimi o fuori norma. Tutto questo può portare e porta spesso alla confusione, a volte alla disperazione, perfino alla follia, alle reazioni violente, al crimine individuale o di gruppo. Partiti politici e sindacati hanno cessato da decenni di esercitare un'azione pedagogica, formativa, sui singoli. Se da un lato questo ha lasciato ai singoli più libertà di pensiero, dall'altro ha provocato una solitudine di massa che non favorisce il pensiero perché impoverisce o distrugge lo scambio comunicativo. La comunicazione è delegata ai media e al loro caos iterativo e interattivo. Se la politica tende a degenerare sia nei regimi autoritari (per eccesso di forza coercitiva) che in quelli democratici (per crollo dell'autorevolezza), la scienza, che pretende di essere la guida illuminata e razionalmente attendibile del mondo moderno, è frantumata nelle specializzazioni settoriali, al punto che un fisico e un biochimico, un neuropsicologo e un ingegnere informatico non dispongono di un linguaggio comune che permette di scambiarsi e discutere i risultati delle loro ricerche. In un recente articolo sul Foglio (“Processo alla malascienza”, 22 giugno scorso) Enrico Bucci, biologo dell'Università di Philadelphia, descrive la crisi attuale dell'«impresa scientifica», delle sue pubblicazioni, della sua politicizzazione distorta, dei suoi canali di informazione pubblica. La scienza ha oggi un enorme potere. Ma la coscienza extrascientifica degli scienziati per quali vie può arrivare a concepire un'autocritica della scienza?
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