
L’esperienza dell’Esilio a Babilonia, dopo la presa di Gerusalemme per mano di Nabucodonosor, è stata per molti aspetti traumatica per il popolo d’Israele, privato com’era della Terra promessa e del Tempio, il luogo della presenza di Dio. E tuttavia è proprio nel cuore di quella sventura, nel confronto quotidiano con la religione dei vincitori, che sotto la penna del profeta Baruch appare una beatitudine: «Beati siamo noi, o Israele, perché ciò che piace a Dio è da noi conosciuto» (Bar 4,4). Quello non è certo un tempo buono per il trionfalismo. Non c’è nessuna superiorità di cui avvalersi, come se al suo popolo Dio avesse concesso il privilegio di conoscere le regole del gioco della salvezza che resterebbero oscure agli altri – così come non le ha rivelate ai cristiani per dar loro un vantaggio poco fair play sugli altri nella corsa verso il paradiso. Conoscere la volontà di Dio è una gioia perché questa volontà, come dice san Paolo, è «che tutti gli uomini siano salvati e giungano alla conoscenza della verità» (1Tm 2,4). È una gioia perché questa volontà ci rivela l’amore di Dio nei nostri confronti; ma è soprattutto una grossa responsabilità: sta a noi agire perché questa volontà universale di salvezza diventi realtà; sta a noi giocare perché questa gioia divenga in noi così calorosa, così invitante, che tutti gli uomini desiderino condividerla.
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