venerdì 4 novembre 2016
Amalia Signorelli, docente di antropologia culturale, allieva del grande De Martino, ha il gusto e la passione di dialogare con le persone che incrocia, e di derivare anche da questo la sua capacità di interpretare i mutamenti della società, di un'Italia che ha amato ingaglioffarsi al seguito dei suoi governanti e chiudersi dentro forme di egoismo quali costrette e quali volontarie e complici. Al contrario dei sociologi, che sembra vivano in un altro pianeta, gli antropologi italiani si portano bene, hanno un forte decano, Francesco Remotti, e sanno guardare al mondo degli altri allo stesso modo che al nostro. Sanno guardare al presente con occhi vigili e preoccupati, non distanti. Dobbiamo alla Signorelli un piccolo libro semplice e acuto, testé uscito da Einaudi, La vita al tempo della crisi, che racconta e riflette non su massimi sistemi ma su quello che capita, a lei come a tutti, di vedere e soffrire giorno per giorno se si hanno occhi per vedere e cuore per soffrire. Non si dà antropologia senza curiosità per gli altri (accompagnata talora da partecipazione, solidarietà, condivisione), senza saper ascoltare oltre che vedere, e confrontare. L'analisi del presente che la Signorelli propone avrebbe meritato altro spazio e profondità, ma le stava evidentemente a cuore intervenire nell'oggi dall'oggi, e comunicare quanto dell'oggi comprende. Molte cose interessano del suo pamphlet ma mi soffermo su un'osservazione che sembra marginale e non lo è. Dei piccoli gruppi di giovani che lei ha incrociato e con i quali ha dialogato, certi studenti d'ingegneria «hanno affermato con molta vivacità che non è loro intenzione andare all'estero e che una volta laureati vogliono restare in Italia e lavorare per risolvere i problemi del nostro Paese: dissesto idrogeologico, antisismica, viabilità, inquinamento». Tutto è forse vago «ma se non altro è positivo incontrare in un gruppo di giovani socialmente più garantiti della media un'aspirazione diversa da quella di fuggire all'estero». Niente di male a girare il mondo, a vivere altrove per un certo periodo per conoscere e confrontare, ma… Mi torna in mente una discussione con Pasolini al tempo della sua bella curiosità per la vitalità del “Terzo Mondo” contro la mutazione nefasta del nostro, alla quale si osava replicare: «Sì, ma noi siamo italiani e il modo migliore per aiutarli sarebbe quello di “fare la rivoluzione” in casa nostra, di cambiare le cose a partire dal contesto che conosciamo meglio». Oggi tutto è cambiato, ma “stare qui”, capire qui, attivarsi qui dovrebbero essere il primo dovere di tutti e in particolare dei giovani, “anche se il qui” che è più squallido dei tanti “altrove”.
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