domenica 6 gennaio 2019
«Ecco l'omero acceso, la pepita/ rivolta al sole,/ la cavolaia folle, il filo teso/ del ragno su la spuma che ribolle//
qualcosa che va e tropp'altro che/ non passerà la cruna…// Occorrono troppe vite per farne una». Eugenio Montale è uno dei grandi poeti del Novecento, un poeta del No. Esplicitamente afferma che la poesia esclude la vita, e viceversa. L'opposta visione di chi come me cita tantricamente «Tu cantami qualcosa pari alla vita» del massimo poeta italiano moderno, Mario Luzi. La poesia s'intona alla vita, anzi, si prostra assestatamente alla vita. Ma i poeti non sono filosofi, le loro affermazioni non pretendono e non devono avere rigore logico assoluto. A Montale la vita appare, enigmatica: ne ha paura, come un fanciullo, che si maschera dietro la sapienza rassegnata dello scettico. La nega, la vita, quasi per scaramanzia, ma leggete come la celebri nella sua confusione e nel suo disordine: la cavolaia folle, visione geniale di una farfalla bianca che svolazza proprio follemente, qualcosa che va troppo oltre e non passa la cruna: che travaglio, che fatica, ma ispirato e ispirante il poeta scrive che dobbiamo accettare le troppe vite, pur di farne una. Come dire: è travaglio, travaglio sia. Questo il mio compito, questa è poesia.
© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI