domenica 4 luglio 2004
Osanna non significa urrah! e neppure "Viva Gesù!", bensì: "Vieni, abbiamo bisogno di te!". Se l'uomo in difficoltà lanciasse questo grido, l'aiuto non gli verrebbe negato. Questo è bene sapere per comprendere che cosa sia la fede. «Quando vado alla Messa spesso non prego, guardo./ Sono come un bambino./ Guardo, e credo. E il Signore mi dice"/ - Bravo, hai fatto bene a venire"». Così scriveva il poeta Carlo Betocchi (1899-1986) nella sua Messa piana. Avremmo tutti bisogno di ritrovare, almeno di domenica, questa oasi di contemplazione, non per cadere in una sorta di autismo spirituale, evitando ogni contatto con la comunità (come dice il termine di matrice greca, "liturgia" è "opera del popolo"). Ma per avere uno spazio di intimità con Dio così che lui dilaghi nella nostra vita come sorgente di giustizia e bontà. La radice di questo atteggiamento è ben espressa dalla frase che ho sopra citato e che è di uno dei maggiori teologi del Novecento, Karl Barth (1886-1968). Egli prende spunto da quell'Osanna che canteremo anche oggi nel "Santo" della Messa. Si tratta di un'acclamazione ebraica (Hoshi'a-na') che letteralmente significa: "Orsù, salvaci!". Non è, perciò, come siamo soliti pensare, secondo l'accezione comune, un grido di allegria, un urrah! da stadio, la pura e semplice esaltazione di un personaggio celebre. E', invece, un'implorazione rivolta a chi può sollevarti dall'infelicità. E' un'invocazione a chi può salvarti ed è per questo che essa non ha bisogno di clamore ma di intensità. Ha bisogno che fiorisca dalla fede, dalla fiducia e dalla speranza e non da un'effervescenza momentanea.
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