Non temere il sonno e i sogni: sono rigeneranti, secondo Jacqueline Risset
sabato 19 dicembre 2009
Tra le esperienze e le azioni più apprezzate, ricercate, celebrate non c'è il dormire. Anche perché questa necessità biologica è vista come una debolezza, una lacuna o sottrazione della vita: un essere assenti dove e quando, invece, sarebbe eccitante, meritorio, responsabile essere presenti. Più che un'esperienza e un'azione, il sonno è il loro negativo: inazione, inesperienza.
Ma Jacqueline Risset, saggista e poeta, che almeno un'impresa eroica l'ha compiuta, traducendo ottimamente in francese la Divina Commedia, ha scritto un saggio analitico e narrativo sul sonno, sulla sua potenza e creatività, sulle sue sorprese (Le potenze del sonno, Nottetempo). «Il sonno ci sfida. Ogni giorno, ci fa varcare un punto in cui non sappiamo più cosa accade (") Il passaggio attraverso questo enigma ci fa vivere quotidianamente nel mistero e nell'inconoscibile». Il sonno è una fuga dal mondo di veglia. È un'escursione involontaria, passiva, in un luogo ulteriore dove le nostre intenzioni e decisioni non contano, dove incontriamo il rovescio di noi stessi e qualcosa che non sappiamo (o non sappiamo di sapere, nel fondo buio della mente).
In quanto «fonte di tutte le energie», il sonno ci genera e ci libera. Permette l'abbandono a qualcosa che ci trascende. Ci libera anche, per un po', dal libero arbitrio e dai suoi errori. Introduce e permette il sogno, che nella sua confusione apparente ci avverte e ci rivela. Il sonno permette così un risveglio a noi stessi che lo stato di veglia ostacola: «Ma soprattutto, nel sonno cogliamo quel tessuto impalpabile che è il fondo di tutto ciò che siamo» (p.21). «Il sonno contiene un mistero» continua la Risset, «quello di consentire l'abbandono della ragione, che assiste alla propria disfatta e trova in essa non solo piacere, ma anche, accanto al piacere, una ragione nuova» (p.42). Perciò, chi teme il sonno si ammala di se stesso, è intossicato dall'ossessione di controllare la propria vita.
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