giovedì 24 novembre 2016
Era alto, ben piantato, il viso bonario, gli occhi chiarissimi. Così chiari gli occhi e larghe le spalle che, pensavo, doveva essere un lontano discendente di qualche Gallo, o Unno, passato in secoli lontani nelle campagne di Voghera, la sua città natale.
Ho lavorato per quindici anni con lui. Per molti anni è stato caporedattore, poi vicedirettore, al desk centrale di Avvenire, che è la macchina, il motore che fa il giornale. Tiziano sedeva a quella scrivania, come a una plancia di comando. Io allora facevo l'inviato e viaggiavo, anche lontano. Dalle terre dello tsunami o dall'Aquila sapevo che potevo trovarlo fino a tarda ora in redazione. Era sempre fra gli ultimi a andarsene.
Era bello, quando telefonavi da un posto sperduto o disastrato, trovare la sua voce padana. Ti sembrava in un attimo di essere a Milano, in piazza Carbonari, di potere scendere a bere un caffè. Era soprattutto, la sua, una voce calma, qualsiasi cosa stesse accadendo, e anche se mancavano solo due ore alla chiusura dell'edizione. Quella voce mi dava la sensazione che la nave del giornale, comunque, mantenesse diritta la sua rotta.
Tiziano è morto pochi giorni fa, a 66 anni. Sono andata al funerale a Valle Salimbene, il suo piccolo paese, vicino a Pavia. Ci abbiamo messo un'ora, a arrivarci. E allora ho immaginato tutte le notti, tutte le nebbie che Tiziano ha traversato ogni giorno, per decenni, per tornare a mezzanotte a casa sua.
In chiesa guardavo la famiglia affranta, poi guardavo la bara e avevo una sensazione di irrealtà: Tiziano morto, mi dicevo, non è possibile. Mi ricordavo quanto abbiamo riso, insieme. Gli piaceva collezionare titoli surreali dai giornali, ne aveva anche fatto due libri. Il primo si intitolava: «Scoppia il maiale, ferito un contadino». Tiziano era bravissimo a scovare titoli folli. Quando ne trovavo uno io glielo leggevo per telefono, e lui, grato, prendeva nota. E la volta che in riunione, cercando nella borsa un paio di occhiali, ne ho estratto per sbaglio una spaventevole maschera da mostro di un figlio, dimenticata lì dentro dopo la festa di Carnevale del giorno prima? Ricordo ancora i suoi occhi gentili illuminarsi di un sorriso.
E quante volte, telefonando da chissà dove, gli raccontavo ciò che avevo da scrivere, lui faceva brevi domande, e io, di rimando: «Tiziano, quante righe?». Settanta, ottanta, cento righe se la tragedia era grande, se i morti erano tanti. Più righe scrivi, più dura, in genere, è passata, la morte.
E ora tu sei morto? Tu che mi facevi ridere con i tuoi titoli («Moglie obesa si sdraia sul marito. Lo ha ucciso»). Non ci credo, mi dico, a questa bara. «Quante righe, Tiziano?», quante volte te l'ho chiesto. Mi aspetto ancora una tua battuta fulminante. Con quegli occhi chiarissimi da Gallo, come, ne sono certa, quel tuo antenato che passò, in tempi remoti, in queste terre, tra Voghera e Pavia.
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