Nei cosmi di Mullican, instagrammer senza Instagram
lunedì 18 gennaio 2021

Ci sono artisti che sfuggono a qualunque etichetta, di cui si può dire tutto e il contrario di tutto, tanto grande è la loro produzione, le tecniche, gli strumenti, le visioni, i campi d’azione, i cambiamenti nel tempo. È il caso di Matt Mullican, californiano (nato nel 1951 a Santa Monica) figlio della pittrice surrealista venezuelana Luchita Hurtado e dell’artista americano Lee Mullican, conosciuto come membro della “Pictures Generation” che ha come punta di diamante Cindy Sherman. Sfogliando a più riprese il corposo volume uscito qualche mese fa (Mullican, Fotografie. Catalogo 1967-2018, Skira, pagine 608, euro 50,00) - che raccoglie la sua produzione fotografica dopo la mostra monumentale “The Feeling of Things” che nel 2018 “occupò” il Pirelli Hangar Bicocca a Milano - è come entrare in un nuovo sistema spaziale, per riflettere sul significato e i sentimenti delle cose, «la sensazione che provocano». «I cinque mondi», li chiama lui, dove ogni mondo corrisponde a un diverso livello di percezione, rappresentato da altrettanti colori: verde per gli elementi fisici e materici; blu per la vita quotidiana (“il mondo senza cornice”); giallo per gli oggetti che acquistano valore, come l’arte (“il mondo nella cornice”); bianco e nero per linguaggio e simboli; rosso per soggettività e idee.

Mondi che Mullican rappresenta passando senza problemi dai medium più diversi, dal disegno alla fotografia e ai video, dalla pittura alle sculture in vetro, opere di carta, a pavimento, in box, grandi installazioni, banner e bandiere, progetti digitali totalmente computerizzati. Nel volume ci sono le foto dell’allestimento della mostra milanese, scattate dallo stesso Mullican, che danno il senso del suo variopinto universo. Basta scorrere le fotografie per passare dalle cose più banali e bizzarre della sua quotidianità («ho immortalato il letto in cui dormo, la cucina dove preparo il mio cibo, le strade dove cammino di continuo», come dire The world around me) a paesaggi “marziani” («il mio approccio è quello di un alieno») che nascono da visioni acquatiche e atmosferiche, giochi di luce, i colori riflessi dei fiori.

Colored light in studio Light boxes, 1995

Colored light in studio Light boxes, 1995 - Matt Mullican

«Il fatto è che non sono né un fotografo né un pittore – ammette in una conversazione con la curatrice Roberta Tenconi -. La mia arte non si basa su una tecnica. Non si tratta di saper premere un tasto sulla fotocamera o incorniciare un’immagine. La fotografia e il suo funzionamento sono temi che mi interessano molto sin dai primi anni Settanta. Appena ho finito le scuole fotografavo spazi vuoti solo per il loro essere vuoti, oppure un foglio di carta bianca sulla parete. Ho utilizzato la fotografia e continuo a farlo, è il medium che uso più di tutti. Ma è un modo diverso di vedere le cose. Una delle cose che mi interessa della fotografia è come possa restituire qualcosa del fotografo negli scatti che lui stesso realizza. Una parte di lui viene trasmessa attraverso le foto, perché instaura una relazione con ciò che fotografa. E questa relazione entra a far parte del contesto della fotografia. Quando ero al liceo il mio fotografo preferito era Richard Avedon, perché era grafico e frontale. Le sue teste erano fantastiche. Sono partito da lì». Così Mullican costruisce per esempio i suoi bulletin boards, immagini trovate e mischiate fra loro, «fotografie realizzate da altre persone, altre molto significative per me, altre ancora di cui non mi interessava niente. Disposte in questa sorta di catalogo, un modo per contenere idee che si presentano in quel momento». Un perfetto instagrammer ante litteram, ma che al tempo di Instagram, dell’ossessione contemporanea di fotografare ogni cosa del quotidiano per condividerle sui social media, ne resta fuori. «Mi hanno detto tantissime volte: “Devi assolutamente aprire un account Instagram e condividere” – racconta l’artista che il 18 settembre compirà 70 anni -. Ho scelto di non farlo. Dovrei, dato che scatto fotografie di continuo, e non sarebbe difficile gestirlo. Il problema di Instagram è il punto di vista di molte fotografie: di solito una foto riflette il punto di vista di chi l’ha scattata ed è questo a essere interessante. È la cosa più affascinante, per esempio di Jacques-Henri Lartigue – uno dei miei artisti francesi preferiti – o di una fotografa che mi piace molto come Lee Miller, è il loro modo di vedere il mondo. Come vedono il modo a seconda di chi sono e dove sono, e di cosa ritengono interessante. Mentre gran parte della produzione fotografica odierna è interscambiabile, Posso vedere un milione di foto e mi sembrano tutte uguali».

Non si corre questo rischio con Mullican. I suoi mondi sono così normali e così sorprendenti, così strani e diversi, da costringerci a guardare e a chiederci che senso abbiano. Dalle cose più apparentemente insignificanti al significato più profondo e assoluto della vita come la interpreta lui. Chiunque attraverserà le sue immagini, le sue opere, le sue installazioni, avrà modo di trovare la sua domanda, il suo interesse, il sentimento di quelle cose. Ma anche no. «I sentimenti viscerali sono un campo minato». Se per René Magritte «la pipa non è una pipa», per Mullican «a volte un sigaro è solo un sigaro. Arriva un momento in cui non ci sono emozioni, ma il non provarle è già un sentimento che si prova nei confronti degli altri». In questo filo così sottile si muove Mullican. Né fotografo, né pittore. Instragrammer senza Instagram.

Una foto e 886 parole.

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