sabato 27 settembre 2003
Mi sento vecchio, usato, nauseato di tutto. Gli altri mi annoiano come me stesso. Ciononostante lavoro, ma senza entusiasmo e come si fa un compito. Non attendo altro dalla vita che una sequenza di fogli di carta da scarabocchiare in nero. Mi sembra di attraversare una solitudine senza fine, per andare non so dove. E sono io stesso a essere di volta in volta il deserto, il viaggiatore e il cammello. Così scriveva in una sua lettera il famoso scrittore francese Gustave Flaubert (1821-1880) rappresentando uno stato d'animo che colpisce molte persone e che già era considerato dai Padri del deserto sotto il nome di acedia, molto più grave della nostra "accidia". Si tratta, infatti, di una sorta di nausea, di vuoto, di scoraggiamento, una sensazione che aleggia in modo impalpabile in molte aree del nostro tempo così demotivato, sazio ma svuotato interiormente: non per nulla lo scrittore Pietro Citati in un suo articolo definiva questa situazione esistenziale come un «gas inavvertito in ogni angolo dell'Occidente». E', allora, necessario reagire con forza quando avvertiamo i primi sintomi di questa malattia dell'anima che purtroppo non risparmia nessuno, almeno in certi periodi della vita, e che si accanisce spesso sui giovani. Lo stesso ricorso alla droga non di rado è considerato come l'illusorio e tragico rimedio a questa depressione dello spirito. Gli antichi maestri sollecitavano il ritorno all'ora et labora, cioè all'impegno operoso per Dio e per gli altri, rompendo quell'immobilità. Ma per far questo è necessaria la paziente determinazione che ti fa procedere un passo dopo l'altro, con fatica e costanza, in attesa che rifiorisca il gusto di pregare, amare, sperare, ossia in ultima analisi, la gioia di vivere.
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