sabato 27 giugno 2020
Se c'è una storia dell'Antico Testamento arcinota, questa è senza dubbio quella di Mosè. Tutti la conoscono, anche se magari per sommi capi. La traversata del deserto inseguiti dall'esercito del Faraone infuriato, il passaggio del Mar Rosso, i dubbi e la sfiducia, la consegna delle tavole della legge... Una storia "densa", piena di significati. Ma se provassimo per un attimo a ribaltarla, immaginando per esempio un rapporto solo utilitaristico, strumentale tra Mosè e il popolo d'Israele, il suo popolo, che cosa verrebbe fuori? Tutti nella vita abbiamo sperimentato che cosa si provi quando qualcuno a cui avevamo affidato con fiducia una parte nella nostra vita si rivela del tutto diverso da come l'avevamo immaginato. Capi ufficio, sindacalisti, responsabili: quando arriva la sorpresa, chiamiamola così, ci si sente delusi, traditi, mortificati. "Ma come, non può essere...", ci diciamo, quasi increduli. Eppure è successo, succede e continuerà a succedere. Ritornando a Mosè, la sua storia sarebbe affatto diversa se, per esempio, avesse ceduto alle lusinghe del Faraone, barattando il suo popolo per il prestigio promesso, o se più tardi, nel momento più difficile, avesse dimenticato di essere egli stesso parte di quel popolo che Dio gli aveva affidato. Il fatto, come ha spiegato qualche giorno fa Francesco, è che quando Dio lo chiama Mosè obietta che «non è degno di quella missione, non conosce il nome di Dio, non verrà creduto dagli israeliti, ha una lingua che balbetta... Con questi timori, con questo cuore che spesso vacilla, come può pregare Mosè? Mosè appare uomo come noi, anche a noi succede, quando abbiamo dei dubbi non ci viene di pregare. Ed è per questa sua debolezza, oltre che per la sua forza, che ne rimaniamo colpiti. Incaricato da Dio di trasmettere la Legge al suo popolo, fondatore del culto divino, mediatore dei misteri più alti, non per questo motivo cesserà di intrattenere stretti legami di solidarietà con il suo popolo, specialmente nell'ora della tentazione e del peccato. Mosè mai ha perso la memoria del suo popolo». Perché, riprendendo l'esempio precedente, se il tradimento arriva da un pastore, se pur nella consapevolezza della nostra imperfezione, a mancare nei nostri confronti fosse un uomo di Chiesa, la delusione sarebbe doppia. Ma, al contrario, ha detto Francesco, non dimenticare mai il popolo «è una grandezza dei pastori: non dimenticare le radici, Mosè è tanto amico di Dio da poter parlare con lui faccia a faccia; e resterà tanto amico degli uomini da provare misericordia per i loro peccati, per le loro tentazioni, per le improvvise nostalgie che gli esuli rivolgono al passato, ripensando a quando erano in Egitto. Mosè non rinnega Dio ma neppure rinnega il suo popolo, è coerente con il suo sangue, è coerente con la voce di Dio». E anche nei momenti più difficili, «perfino nel giorno in cui il popolo ripudia Dio e lui stesso come guida per farsi un vitello d'oro, Mosè non se la sente di mettere da parte la sua gente. È il mio popolo. È il tuo popolo. È il mio popolo. Non rinnega Dio né il popolo. E dice a Dio: "Questo popolo ha commesso un grande peccato: si sono fatti un dio d'oro. Ma ora, se tu perdonassi il loro peccato... Altrimenti, cancellami dal tuo libro che hai scritto!"». Insomma, come ha detto Bergoglio «Mosè non negozia il popolo», perché lui è il ponte, l'intercessore tra il popolo e Dio, non vende la sua gente per far carriera, non è un arrampicatore: è un intercessore per la sua gente, per la sua storia, per il popolo e per Dio che l'ha chiamato. È il ponte, appunto. Un «bell'esempio per tutti i pastori che devono essere ponte… tra il popolo al quale appartengono e Dio al quale appartengono per vocazione». Questo, e niente altro.
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