mercoledì 25 marzo 2020
Che il Santuario di Lourdes abbia chiuso i cancelli, per la prima volta nella sua storia, è stata una misura di necessaria prudenza. Non vado laggiù da qualche anno, ma mi restano indimenticabili i pellegrinaggi che ho seguito per Avvenire. Al primo impatto, i negozi di souvenirs mi avevano dato fastidio. Ci ho messo un po' a capire. Ho dovuto cercare: camminare nel santuario, dall'alba alla notte. Vedere, di primo mattino, quelli che accorrevano con le bottiglie ai rubinetti della fonte, e le riempivano, e ne bevevano avidamente. Bevvi anche io: l'acqua di Lourdes era buona.
Restai a lungo a leggere le lapidi, nella chiesa, che ripetevano solo “merci”, “grazie”, “grazie”. Grazie, da uomini e donne ormai scomparsi da un pezzo e da contemporanei, da francesi e italiani e gente di ogni dove. Un'infinita catena di “grazie” che mi impressionò, e mi convinse che in quel luogo non poteva non essere successo qualcosa. Poi feci la coda alle piscine, con tante altre donne, e c'erano parigine eleganti e contadine delle campagne ucraine o polacche, ancora con le gonne lunghe fino ai piedi. E tutte per ore in attesa, per bagnarsi nell'acqua di Lourdes. Partecipai alla processione aux flambeaux, nella notte, gran scia di luce che procedeva nel buio. Vidi le facce dei malati in carrozzella, e dei volontari che li spingevano. Scoprii che non tutti venivano a chiedere una grazia: molti ritornavano solo per ringraziare. Di una guarigione, di una pace ritrovata, di una disperazione vinta. E già questa gratitudine rendeva i loro occhi diversi: in pace, lieti, come nelle nostre città non se ne vedono tanti. È questa strana letizia, per me, il segreto di Lourdes. Che riaprano presto, quei cancelli. Ne abbiamo bisogno tutti – e forse più i sani che i malati.
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