domenica 14 maggio 2006
Una passione vera e infelice è un lievito avvelenato che resta in fondo all'anima e
che guasterebbe anche il pane degli angeli. Si siede di fronte a me su un Eurostar una signora, mi riconosce e dice: «Sono fortunata di aver il posto davanti a lei perché così riesco a risolvere una piccola questione pratica: volevo da tempo inviarle una frase per il Mattutino che leggo ogni giorno e non sapevo come fare». Ed ecco che, qualche giorno dopo, al mio indirizzo ricevo questa citazione dalle Memorie d'oltretomba, romanzo autobiografico postumo (1849) dello scrittore francese François R. de Chateaubriand. Naturalmente io da quel viaggio riesco a capire perché questa frase fosse così importante per quella signora, avendo conosciuto da lei la sua vicenda personale. Sta di fatto, però, che essa è un po' vera per tutti, a prescindere dal fatto che si tratti di passione d'amore. Nell'esistenza, infatti, ci accade di vivere esperienze che lasciano tracce profonde nell'anima; sono veri e propri solchi che non possono essere più spianati o ferite che non riescono a rimarginarsi. Esse generano appunto passioni che trascinano con sé un corollario di angosce, di pene, di tormenti, di affanni, persino di sofferenze fisiche e insonnie. È curioso, infatti, che in italiano abbiano la stessa radice «patire, passione, patimento, patema, patetico, patologia». Il cuore resta quasi avvelenato e non c'è possibilità di strappare dal fondo di se stessi questa radice maligna che intacca pure la vita spirituale (come dice Chateaubriand, «guasta anche il pane degli angeli»). Eppure bisogna pure dire che esiste il vocabolo «apatico» per designare chi non prova mai una passione, e anche questa è una grave malattia che non dà la pace ma solo l'atonia mortale dell'anima. Il fremito della passione è, infatti, necessario per amare e per vivere autenticamente anche la stessa fede.
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